Vlahovic è un enigma che neanche Thiago Motta riesce a risolvere

Nonostante il cambio di allenatore, il centravanti della Juventus non riesce a essere decisivo.

Dusan Vlahovic è un attaccante potenzialmente molto forte che però tende a smarrirsi, a incagliarsi in una lotta furiosa contro i suoi demoni interiori. La durata di queste battaglie con (e contro) se stesso dipende dalla capacità di sopportazione e dal grado di empatia dell’allenatore che lo vede spegnersi progressivamente fino a diventare quasi trasparente, irrilevante, dannoso per la sua squadra: nell’ottobre 2022, Massimiliano Allegri ci mise quasi 80 minuti per sostituirlo in un Milan-Juve in cui Vlahović era diventato la rappresentazione plastica del concetto stesso di impotenza; sabato pomeriggio, a Thiago Motta di minuti ne sono bastati di meno, 45 più recupero, per capire che quella contro il Napoli di Antonio Conte era un’altra partita impossibile, per il suo centravanti: fino a quel momento, infatti, Vlahovic si era segnalato quasi esclusivamente per lo sciagurato retropassaggio con cui aveva permesso a McTominay di calciare fronte porta dai 25 metri. E a quel punto Motta era sostanzialmente certo che Vlahovic non sarebbe più riemerso dalla palude in cui era sprofondato ancora una volta, in questo complicato inizio di stagione.

Se esistesse un sistema per misurare l’impatto dell’aspetto psicologico sulla prestazione di un singolo calciatore, allora leggere, analizzare e interpretare le partite di Dusan Vlahovic sarebbe molto più semplice e immediato. Ma siccome questo sistema non esiste, nemmeno nell’epoca degli algoritmi e delle advanced stats applicate a qualsiasi ambito dello scibile umano e dello sport professionistico, non resta altro da fare che affidarsi al vecchio metodo, all’osservazione empirica del fenomeno in questione. Anche così, comunque, non sarebbe difficile capire che le gare in cui Vlahovic finisce con il trascinare per il campo il masso di Sisifo di un’emotività incontrollata e incontrollabile sono quelle in cui avverte che qualcosa non funziona come dovrebbe, spesso a seguito di una situazione del tutto marginale nella dinamica dei 90′, come può esserlo appunto un tocco o un passaggio errato. Qualcosa che lui interpreta come una specie di presagio di sventura imminente, trasformando così una percezione soggettiva momentanea nella realtà fattuale permanente. Contro il Napoli è accaduto, anzi stava accadendo, esattamente questo: la differenza, rispetto ad altre occasioni, è che l’allenatore ha deciso di interrompere subito un trend (negativo) individuale che avrebbe potuto riflettersi anche sul collettivo.

«Dusan non ha alcun problema, sta bene e ha disputato un buon primo tempo: ha aiutato la squadra attaccando la profondità», ha detto Thiago Motta dopo la partita tra Juventus e Napoli. È stata una risposta a chi gli chiedeva di spiegare una scelta tecnica dal peso specifico rilevante, vale a dire l’inserimento all’intervallo di Timothy Weah nel ruolo di prima punta – un ruolo che Weah aveva ricoperto soltanto agli inizi della sua carriera. Tutta la disabitudine di Weah ad agire come centravanti, per quanto atipico, è emersa al minuto 70′, quando la Juventus ha costruito la migliore occasione della sua partita: come hanno fatto notare tantissimi utenti che su X hanno condiviso la medesima clip, sulla percussione palla al piede di Cambiaso, il taglio esterno-interno di Weah ha portato Buongiorno proprio nello spazio in cui si era inserito Koopmeiners. Che, a quel punto, è stato trovato costretto ad affrettare (e quindi a sbagliare) la conclusione di destro all’interno dell’area di rigore. Con Vlahović, cioè con una prima punta che ragiona e gioca come tale, quell’azione avrebbe potuto avere un esito diverso? L’attaccante serbo sarebbe riuscito a completare il movimento senza palla a tirare fuori Buongiorno dalla direttrice di corsa di Koopmeiners, spalancandogli le porte per il suo primo gol in bianconero? Difficile da dire e da credere, soprattutto per chi ha ancora negli occhi quanto successo al 47esimo dell’ultimo Juve-Roma, quando sarebbe bastato un semplice tocco di esterno destro per mettere Francisco Conceição solo davanti a Svilar.

Thiago Motta, proprio in occasione della gara contro la Roma, aveva detto che la sua squadra «ha giocato bene, però sulla precisione dobbiamo migliorare. E non parlo solo di Dusan». Anche in quell’occasione il tecnico della Juve aveva sostituito Vlahovic con Nico González. Però a sette minuti dalla fine, quando in pratica la partita non aveva già più nulla da dire. La questione, però, non riguarda solo la dimensione tecnica delle prestazioni di Vlahovic, e nemmeno quei limiti caratteriali che non gli permettono di fare la differenza nelle pieghe dei match più ruvidi: oggi parlare di Vlahovic significa parlare di un giocatore che, nonostante si trovi nel periodo che dovrebbe coincidere con l’apice del suo sviluppo psico-fisico, non è ancora riuscito ad andare oltre sé stesso. E che pure in questa nuova stagione sembra essersi impelagato nella stessa situazione, il tutto nonostante sia arrivato Thiago Motta. Un allenatore che ha subito imposto delle sovrastrutture molto più complesse rispetto a quelle del suo predecessore, Massimiliano Allegri.

Con la maglia della Juve, Vlahovic ha messo insieme 43 gol in 107 gare ufficiali di tutte le competizioni (Valerio Pennicino/Getty Images)

Fin da quando è arrivato alla Juventus, ad eccezione dei primi quattro mesi (dieci gol segnati in 21 partite tra febbraio e maggio 2022, compreso il capolavoro realizzato contro il Villareal al suo esordio assoluto in Champions League), Vlahovic è stato uno dei punti attorno al quale si è polarizzato il dibattito attorno alla figura di Allegri. Anzi, si può dire che sia stato il caso più spinoso in assoluto, visto che si parlava costantemente del fatto che Vlahovic era stato pagato 80 milioni e Allegri faticasse a metterlo nella condizione di fare quello che sa fare meglio. Con il passare dei mesi, delle partite e delle stagioni, è apparso chiaro che una squadra come la Juve degli ultimi due anni e mezzo, passiva e monodimensionale nella fase di possesso, non fosse certo il contesto ideale per un giocatore che aveva (e ha) bisogno di toccare un gran numero di palloni per guadagnare fiducia in tutto quello che faceva, per un attaccante che deve sentirsi coinvolto perché possa farsi trovare pronto, cioè mentalmente connesso, nel momento in cui si ritrova a dover calciare verso la porta. Eppure quella sorta di cortocircuito, comunicativo e non solo, che non permetteva di capire da che parte pendesse la bilancia, cioè dove finissero i limiti della Juventus di Allegri e dove iniziassero quelli di Vlahovic, non è stato debellato. Anzi, sembra peggiorato: oggi sulla panchina bianconera c’è un allenatore che a Vlahovic chiede proprio quella partecipazione, quel coinvolgimento e quella centralità che Dusan dava l’impressione di volere più di ogni altra cosa al mondo. E che, invece, ha finito con il trasformarsi nell’ennesimo fardello da portare, in un altro carico di aspettative e responsabilità che diventano insostenibili già al primo errore.

«Vlahovic ha solo 23 anni. Crescendo, imparerà a trovare l’equilibrio: nel calcio sbagliano tutti, e dopo una palla sbagliata c’è sempre la possibilità che arrivi quella che risolve la partita. Lui, invece, quando sbaglia un gol o un passaggio si innervosisce. Per questo deve capire che deve rimanere sereno e tranquillo». Queste parole le ha pronunciate Massimiliano Allegri il 23 settembre 2023, pochi minuti dopo il 4-2 rimediato dalla Juve a Sassuolo. Da allora è passato un anno esatto, il tecnico livornese e il suo calcio reattivo ed essenziale fanno ormai parte del passato, ma Vlahovic è rimasto sempre lì, più o meno fermo allo stesso punto. Ce ne siamo accorti in queste prime sei partite stagionali, partite in cui la Juventus di Motta ha mostrato di soffrire particolarmente le squadre che difendono in maniera compatta negli ultimi trenta metri. Il motivo va ricercato nei troppi errori tecnici in fasi di rifinitura: anche contro il Napoli, Koopmeiners e McKennie – i due trequartisti “spuri” chiamati ad attaccare l’area dopo il consolidamento del possesso – hanno occupato molto bene gli spazi alle spalle dei giocatori che uscivano in pressione sul portatore di palla ma, ogni volta che sono stati coinvolti nel possesso, non hanno mai avuto in Vlahovic il punto di riferimento con cui associarsi per dialogare nello stretto e andare nello spazio per vie centrali. Nonostante il centravanti serbo sia in grado di fare anche cose del genere. Solo che non riesce più a farle.

E allora cosa blocca Vlahovic, rimasto una copia sbiadita di se stesso nonostante due allenatori così diversi? Cosa inquieta o comunque turba il centravanti serbo? È il caso di andare a rispolverare il concetto un po’ rétro per cui la maglia della Juve ha un peso diverso, cioè genera una pressione che non tutti, soprattutto se parliamo di calciatori chiamati a essere determinanti, riescono a sopportare? Probabilmente sì, ma allora perché i primi assaggi in bianconero furono così promettenti, così positivi? Forse allora Vlahovic è diventato vittima di un periodo di siccità prolungata che lo porta a entrare in campo con l’ansia che gli scoppia dentro, a effettuare ogni giocata con una chiara ed evidente frenesia. Una condizione che, per un calciatore emotivo come lui, può essere davvero difficile. Così difficile che il suo allenatore ha deciso di sostituirlo all’intervallo di un big match ancora in equilibrio. Era difficile pensare che la Juve e Vlahovic potessero trovarsi ancora qui, immersi in questo stallo alla messicana, dopo due anni e mezzo e con Thiago Motta in panchina. Eppure il rebus è ancora irrisolto, e in fondo il problema è proprio questo.