C’è ancora più gusto, nel tifare agli Europei

Seguire le proprie Nazionali nei grandi eventi non assomiglia a nessun'altra esperienza calcistica: costruisce un senso di comunità unico, che spesso si mescola anche con gli avversari.

Per due mattine di fila, a Dortmund è piovuto. Per rinsaldare il più inscalfibile degli stereotipi, il cielo della Ruhr, anche a giugno, non è dei più invoglianti. Poteva esserci solo un fattore ad attirare circa 60mila persone nel mezzo di una delle regioni più industrializzate – e meno divertenti – di tutta Europa: il calcio. Per una volta, non è stato il Borussia Dortmund, vera attrazione cittadina, a fare da protagonista. Italia-Albania ci ha ricordato che gli Europei sono una cosa a parte, da qualsiasi punto di vista. Fissano nella memoria momenti indimenticabili. Costruiscono un’idea diversa di tifo. Alimentano uno spirito di condivisione, soprattutto se quella condivisione è attuata con nazioni e culture diverse.

Una delle prime scene in cui ci si poteva imbattere, mentre la portentosa struttura del Signal Iduna Park si faceva sempre più ingombrante allo sguardo, era quella di un gruppo di tifosi italiani e albanesi che danzavano insieme sulla musica di una canzone tradizionale albanese. La magia degli Europei sta anche qui: nell’unire varie culture pur accentuandone le diverse identità e nazionalità. E non c’è dubbio che a Dortmund, nelle ore precedenti il match, l’identità albanese sia spiccata più di tutte: l’impressionante fiumana di 50mila tifosi ha completamente ribaltato la facciata della città tedesca, inondando con il loro frastuono – clacson e bandieroni, megafoni e cori, salti e un lungo corteo che dal centro città ha raggiunto lo stadio – le altrimenti sonnolente vie di Dortmund.

Un Paese, l’Albania, fuori dall’Unione Europea che con il calcio si sente pienamente europeo. Che le dinamiche nazionali vengano ridefinite attraverso il calcio ce lo dicono anche i tifosi italiani a Dortmund. Molti arrivati dall’Italia, molti di più dalla Germania e dalle città vicine. Spesso nati fuori dai nostri confini, con il legame con l’Italia reso solido proprio grazie alla Nazionale. «Non mi sento italiana, sono italiana!», esclama una ragazza nata a Dortmund, il nome Filomena sulle spalle della maglietta azzurra. Dentro lo stadio i nostri tifosi sono in netta minoranza, ma si fanno sentire. A intervalli regolari, l’urlo I-ta-lia, I-ta-lia si alza roboante dagli spalti. E in quell’urlo primigenio, forse il più spontaneo e genuino che possa esistere in uno stadio di calcio, si riconoscono tutti quelli a cui l’Italia sta a cuore, a prescindere da quello che c’è scritto su una carta d’identità. Il calcio codifica persino una lingua tutta sua, che prende vita nei cori, nelle espressioni di gioia o disperazione, e pure in qualche vaffanculo, anche se pronunciato con cadenza tedesca.

E quindi Italia-Albania è stato il momento in cui mettere in pratica quei rituali che tiriamo fuori ogni due anni e non di meno, per Mondiali ed Europei, dal cantare l’inno a intonare il popopopopopoooo eredità del 2006, fino a un nostalgico Notti Magiche che lo speaker del Signal Iduna Park aziona intelligentemente al fischio finale. Quell’idea che per riconoscerci tra di noi basta una maglietta o un forza azzurri, amplificata da quell’elettricità che solo certe partite, come questo Italia-Albania della fase finale di un Europeo, possono trasmettere. E che si ricrea come per magia ovunque, che sia tra le vie delle nostre città o tra i corridoi impestati dell’odore di wurstel grigliati di uno stadio tedesco.

Tutto questo ovviamente non vale solo per l’Italia. In questi giorni di competizione, le città tedesche si stanno trasformando in porti a connotazione calcistica. Scozzesi con kilt d’ordinanza, danesi con magliette vintage che ricordano il successo del 1992, olandesi coloratissimi, e poi i bandieroni degli inglesi, i cori degli spagnoli, ma anche tifosi di Paesi calcisticamente meno rilevanti, come slovacchi o polacchi, che esibiscono con orgoglio i propri stemmi e i propri colori. Un Carnevale del pallone retto da uno spirito decisamente diverso da quello che si vede per i campionati nazionali, per esempio: lì si fa squadra per escludere, si costruisce un’opposizione anche solo ideale, qui la voglia di mescolarsi è una legge non scritta, irrefrenabile, che passa per scambi di sciarpe e gag un po’ sceme, tipo gli albanesi che a mo’ di sfottò spezzano gli spaghetti in due.

Gli Europei costruiscono questo, un’idea di comunità che trae forza proprio dalle differenze. In questo il calcio è un vettore molto più potente della politica e non è solo uno slogan vuoto. Per quanto sia più facile per le cronache riportare episodi negativi, come gli scontri tra inglesi e serbi prima del match di Gelsenkirchen, l’idea che il calcio, gli Europei in questo caso, metta al centro un modo di tifare che si mescola e si arricchisce reciprocamente è più attuale che mai. Basta viverla.