Negli ultimi anni il calciomercato degli allenatori è stato un pranzo di gala a cui era invitata solo una ristretta élite. Un gioco di soliti sospetti che si scambiavano le poltrone, o le panchine, fino a tornare dove erano già stati. Un mondo piccolo, con poche idee e poco coraggio. L’esatto opposto del fervore elettrico che c’è nei trasferimenti dei giocatori. Poi è arrivata la primavera 2024 e il calciomercato degli allenatori si è rivelato tutt’altro, un po’ all’improvviso, come Keyser Söze: il Liverpool ha annunciato Arne Slot, il Chelsea indeciso tra Roberto De Zerbi, Thomas Frank e Míchel alla fine ha scelto Enzo Maresca, il Bayern disperato ha firmato Vincent Kompany e pure il Milan ha riportato in Italia Paulo Fonseca. «È diventato Hollywood», ha scritto la Süddeutsche Zeitung, che descrive un mercato impazzito come la maionese, imprevedibile e bizzarro.
In realtà non sembra tanto una frenesia fuori controllo. Anzi, era ora che accadesse qualcosa del genere. Perché se il mercato è stagnante, prima o poi arriva il momento di tirare fuori i jolly, altrimenti non se ne esce. E il jolly nel 2024 è qualcosa di molto lontano dalle sensazioni cui si affidavano – e si affidano – certi dirigenti o certi allenatori durante le partite. Nel 2024 l’arma risolutiva è la data science, l’intelligenza artificiale, la ricerca di una certa aderenza a determinate idee. Un parametro che si può calcolare con algoritmi, software, caselle da spuntare. È così, per esempio, che il Liverpool ha scelto l’allenatore che ha vinto l’Eredivisie con il Feyenoord, sebbene avesse un curriculum piuttosto scarno: «Al Liverpool c’era la consapevolezza che sarebbe stato impossibile trovare un facsimile di Klopp, ma in Slot i dirigenti hanno visto alcuni paralleli interessanti», ha scritto The Athletic su questa decisione, in riferimento al calcio offensivo, intenso, fatto di pressione asfissiante e possesso palla della squadra di Rotterdam.
Da qualche anno la data science guida l’evoluzione del gioco e dell’intera industria calcistica. In campo, lo studio dei dati e gli strumenti più innovativi hanno marginalizzato le soluzioni meno convenienti, come i tiri da oltre 25 metri, in favore di quelle più remunerative. Fuori dal campo invece le scelte dei club sempre più spesso sono suggerite da software e algoritmi, che consigliano ai dirigenti acquisti, cessioni, investimenti di ogni tipo. «Se nelle questioni di campo l’uso di certe tecnologie è ancora in una fase embrionale, l’analisi dei dati per scouting e reclutamento è ormai ampiamente sdoganato, soprattutto perché il calciomercato ha tempi lunghi e si tiene in sessioni isolate nel calendario, mentre le partite sono ogni tre giorni e non si ha il tempo di studiare così approfonditamente tutto», dice a Undici Gian Marco Campagnolo, docente di Sociologia della scienza e della tecnologia all’Università di Edimburgo, allenatore certificato sia dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) sia dalla Scottish Football Association (SFA) e autore di Calcio e intelligenza artificiale. Che cos’è la football data analysis (uscito per Carocci). Allora si può dire, finalmente: l’intelligenza artificiale sta cambiando il calciomercato anche in quel segmento più lento e stagnante degli allenatori.
Nelle ultime tre stagioni, Slot ha dimostrato anche di poter essere un uomo del club, non un primus inter pares ma un ingranaggio del sistema, parte di un club stratificato, strutturato, in grado di lavorare in team – come si scrive nei cv e si dice ai colloqui di lavoro. Nel loro lunghissimo reportage per The Athletic, James Pearce e Oliver Kay raccontano un aneddoto chiave su questo tema: «Slot viene invitato alle riunioni di reclutamento e gli viene chiesto il suo parere. Spesso è stato d’accordo con lo staff, ci sono state volte in cui ha suggerito giocatori che ha allenato altrove, o ha dato suggerimenti abbastanza banali. C’erano altre volte in cui rifiutava immediatamente le opzioni presentate dagli scout. Eppure, quando il Feyenoord comprava un giocatore nuovo, anche se non era la sua prima scelta, Slot non ha mai nutrito rancore nei confronti dei giocatori interessati e si è impegnato a massimizzare il loro talento». Questo breve riassunto descrive un altro importante valore cercato dal Liverpool sul mercato, cioè un allenatore che può fidarsi del dipartimento scouting, e più in generale di un tutto l’apparato societario alle sue spalle.
È l’evoluzione dell’allenatore aziendalista. «Trovare un tecnico bravo a gestire la squadra», dice ancora Campagnolo, «a migliorare i giocatori, a portare a casa i risultati, e allo stesso tempo capace di accettare i ruoli degli altri, è sempre più difficile. Ma è un punto cruciale in quest’epoca». In un’industria sportiva le cui società sono sempre più grandi, con interessi sempre più orizzontali e diversificati, ogni ufficio, ogni ramo, ogni funzionario deve saper interagire con gli altri per dare un senso a tutto – basta affacciarsi sulle due sponde di Manchester per capire come lavorano una società perfettamente integrata e una in cui ogni reparto sembra lavorare per sé e solo per sé.

Il Telegraph scrive che le grandi squadre vogliono «allenatori gestibili». Colpa anche di una nuova generazione di proprietari – molti statunitensi, provenienti da una cultura di sport analysis molto diversa da quella europea – che chiede una nuova specie di tecnici: non più il vecchio manager della scuola inglese, basta che sia un head coach, un capo allenatore, niente di più. Non necessariamente un “signorsì”, ma almeno uno in grado di accettare ruoli e limiti del suo incarico. La conseguenza è una generale riduzione del potere degli allenatori nei grandi club di quest’epoca. Un buon esempio di questa tendenza potrebbe essere l’avventura di Mauricio Pochettino al Chelsea: uno abituato fin dai tempi del Tottenham a controllare praticamente tutto, a partire da come si fa il mercato, accompagnato alla porta dai Blues proprio sul più bello, quando forse aveva iniziato a vedere i frutti di un anno di lavoro difficilissimo in un club frenetico. Al suo posto è stato scelto Enzo Maresca, protagonista di una grande stagione al Leicester, in Championship, con un’esperienza nulla a livelli così alti, ma abituato a fare solo l’allenatore. E, soprattutto, a dialogare quotidianamente con gli altri uffici del club.
A proposito di Maresca: il fatto che le voci di mercato, vere o solo verosimili, avvicinassero al Chelsea Thomas Frank, De Zerbi, Míchel e Ruben Amorím – tutti allenatori con diversi punti in comune, dallo stile di gioco al profilo anagrafico – rimanda a una ricerca per parametri programmata su una qualsiasi piattaforma di scouting. E magari non si rivelerà la scelta migliore, questo rischio c’è (come diceva un Conte che non è Antonio). Come dice Campagnolo, siamo ancora solo agli inizi di questa nuova era, non si possono dare giudizi di merito: «Il calcio rispetto all’intelligenza artificiale e all’analisi dei dati è un late comer». D’altronde il libro Moneyball di Michael Lewis è del 2003, qui ancora nel 2024 ogni articolo che cita il Ppda e i npXg rischia di essere messo all’indice come gli studi di Copernico, è magia nera. Quindi magari all’inizio qualcuno prenderà una cantonata, farà un uso poco accorto di dati e tecnologie, o magari non prenderà in considerazione tutti gli elementi sul tavolo.
Si può fare l’esempio del Milan che riporta in Serie A Paulo Fonseca. Su The Athletic, James Horncastle dice che nei momenti migliori per un club come il Milan esistono solo tre tipi di opzioni: «L’ideologo-innovatore (Sacchi), l’allenatore con il “physique du rôle” (Allegri), l’uomo che conosce il club (Liedholm)». Lopetegui, uno dei primi nomi sondati, non era nessuna di queste tre cose. Infatti è stato scartato a furor di popolo. Fonseca sembra un buon compromesso: parla italiano, ha saputo gestire una piazza difficile come Roma, si è comportato con classe durante la pandemia nonostante una crisi di infortuni e un cambio di proprietà al vertice del club. In più predilige uno stile di gioco offensivo e verticale, e ama valorizzare i giovani. Fonseca sembra spuntare tutte le caselle. Poi tutto questo si deve intrecciare con il fatto che non si tratta dell’allenatore più glamour possibile, neanche quello più desiderato dai tifosi. E questi sono già fattori potenzialmente determinanti all’alba di una nuova stagione. Però sono più difficili da mettere sulla bilancia, perché aleatori per definizione. Magari diventano un macigno alla prima difficoltà, o magari svaniscono dopo un buon avvio di campionato.
È un dato di fatto: oggi fare calcio, almeno a certi livelli, è meno semplice di quello che sembra. Gli allenatori – proprio come i giocatori – si cercano e si scelgono sulla base di criteri, parametri e dati, e poi anche per la loro disponibilità ad accettare un ruolo da specialista, in cui non devono essere leviatano ma un uomo di campo che ascolta esperti, analisti, scienziati del club. È una piccola rivoluzione anche questa, perché il calcio fa sempre un po’ fatica ad accettare i numeri e l’approccio scientifico. Con il tempo, però, sta iniziando ad apprezzare anche questo, almeno gli addetti ai lavori ci si stanno abituando. E forse diventerà un approccio sempre più diffuso, perché presto i nomi degli allenatori giudicati affidabili, sicuri e credibili ad altissimi livelli, come Pep Guardiola, Carlo Ancelotti e Jurgen Klopp, finiranno. E quindi forse non sarà un computer a scegliere gli allenatori del futuro, ma almeno aiuterà a fidarsi anche di allenatori che non hanno già un curriculum prestigioso.