Il calcio non è mai stato solo calcio. Da quando esiste e arriva nelle nostre case e occupa le nostre abitudini ci fa conoscere nomi, scoprire posti nuovi e in alcuni casi li fissa proprio sulla mappa. In Europa è successo inizialmente con le città industriali e per nulla turistiche della vecchia Germania Ovest, come Dortmund, Gelsenkirchen e più di recente Leverkusen e Wolfsburg. Negli ultimi vent’anni se il Villarreal non fosse stato una presenza quasi fissa nelle coppe europee, e spesso in Champions League, difficilmente avremmo avuto altre occasioni per conoscere la cittadina spagnola di Vila-Real, che con appena 50 mila abitanti fa da satellite a un’altra città non così conosciuta altrove, Castellón de la Plana, sessanta chilometri a nord di Valencia. E dato che in questi vent’anni il Villarreal non si è limitato a presenziare, ma è arrivato a giocare cinque semifinali europee e a eliminare a distanza di anni anche Inter, Napoli e Juventus, i più assidui avranno imparato che la città è famosa per le sue piastrelle in ceramica, le azulejos, come d’altronde suggerisce lo stadio locale, il “Della Ceramica”, o lo sponsor presente da anni sulle maglie tutte gialle indossate dai giocatori.
Una cosa simile potrebbe accadere d’ora in avanti con il Lens, squadra di una vecchia città mineraria francese che ha 36 mila abitanti, ma allo stadio, il giorno delle partite, ne porta quasi 40 mila. Questo succede perché nonostante una storia fatta di molti alti e bassi, il Racing Club de Lens rappresenta in modo piuttosto ampio quella parte profonda del nord della Francia, più lontana dai confini valloni di Lille e cantata in uno dei brani più famosi del cantautore parigino, ma cresciuto a Calais, Pierre Bachelet: «A nord c’erano i corons / la terra era carbone / il cielo era l’orizzonte / gli uomini, minatori». “Les corons” – titolo che si rifà alle vecchie case a schiera di chi lavorava in miniera – non poteva non diventare l’inno più amato dai tifosi del Lens: la sua esecuzione allo stadio sa essere sempre commovente («Mio padre aveva il volto sporco come i suoi genitori / mia madre aveva i capelli bianchi / erano gente di miniera come lo si è di un paese / e grazie a loro so chi sono») non ha nulla da invidiare a quanto succede prima delle partite a Liverpool, Glasgow o Roma.
La passione locale per il calcio si è solidificata soprattutto negli anni Novanta con la vittoria di titolo e coppa nazionale, e anche con i Mondiali del 1998 ospitati al Bollaert-Delelis proprio nell’anno della vittoria in campionato. Gli ultimi due decenni sono stati più complicati che altro, ma a Lens il calcio si è sempre giocato e soprattutto insegnato, bene: da lì sono passati, se non proprio cresciuti, Raphael Varane, Seydou Keita, Olivier Dacourt, Serge Aurier e Geoffrey Kondogbia, per dirne soltanto alcuni. Nel 2020 la squadra è riuscita a tornare in Ligue 1 dopo cinque stagioni, e l’anno scorso è arrivata seconda a un solo punto dai campioni del Paris Saint-Germain. In questa stagione è tornata in Champions League dopo vent’anni di assenza battendo l’Arsenal in casa e aprendo così uno scorcio su quel pezzo di Francia che al calcio ha sempre dato molto, senza mai farlo vedere troppo.
Chi invece ha sempre cercato di farsi vedere, specialmente in Europa, è lo Shakhtar Donetsk, un’altra squadra nata in luoghi di miniere e minatori che ha fatto dell’Europa la sua dimensione, quasi fosse quello il vero luogo in cui dimostrare il meglio di sé. Nel 2009, dopo essere stata rifondata e rinforzata da una delle proprietà più ricche dell’Est Europa, vinse l’ultima edizione della Coppa UEFA rispondendo a distanza di un solo anno alla vittoria dello Zenit San Pietroburgo, la squadra del conglomerato russo Gazprom. Negli anni successivi lo Shakhtar è rimasto di casa in Europa, e una casa in Europa l’ha trovata quando, per via della guerra, ha perso prima lo stadio, poi la sua città, la sua regione, il Donbass, e infine il suo Paese. Pur dovendo rinunciare ai tanti stranieri, soprattutto brasiliani, che negli anni avevano fatto la sua fortuna, lo Shakhtar non ha rinunciato a rimanere competitivo nonostante le difficoltà. Anche in queste condizioni il club riesce a far fruttare almeno 40 milioni di euro dalle sue stagioni europee, grazie ai premi UEFA distribuiti alle partecipanti: in quella in corso ha battuto il Barcellona ai gironi di Champions League e le stime superano già i 46 milioni, che saranno essenziali per coprire le perdite che la società si trova inevitabilmente a dover gestire. E tutto questo lo fa giocando le partite casalinghe tra Polonia e Germania, e talvolta allenandosi anche in Turchia, in quell’Europa calcistica per cui è sempre stata costruita.
Il calcio est-europeo rimane intriso di politica e interessi collegati ad essa. A Belgrado la Stella Rossa di proprietà statale si è ripresa da una situazione quasi fallimentare e ha rimesso dietro di sé il Partizan anche grazie al sostegno economico — fuori scala e fuori mercato — di Gazprom, che continua da un decennio ed è garantito dai vecchi legami tra due paesi ortodossi storicamente alleati, Russia e Serbia. Legami russi alimentano anche le ambizioni della regione moldava e separatista della Transnistria, che nel calcio trova il suo maggior veicolo promozionale e propagandistico nello Sheriff di Tiraspol, l’ultima scoperta del calcio continentale. Due anni fa diventò la prima squadra moldava a rappresentare il piccolo Paese stretto tra Romania e Ucraina in Champions League. Ma lo Sheriff vuole rappresentare la Transnistria, Stato separatista autoproclamatosi indipendente agli inizi degli anni Novanta e da allora governato di fatto da un’amministrazione autonoma filo-russa non riconosciuta dalla comunità internazionale. L’economia locale è sostenuta dalla Sheriff, un conglomerato spesso descritto come “uno Stato nello Stato” per la ramificazione delle sue attività, tale da essere diventata nel corso degli anni un vero e proprio monopolio locale presente anche nello sport e dal 1997 nel calcio. Nelle ultime tre stagioni la squadra, e quindi il gruppo proprietario, hanno guadagnato oltre 37 milioni di euro dai percorsi fatti nelle coppe europee, un’enormità se paragonata alle poche centinaia di migliaia di euro che le altre squadre moldave sono solite ricevere dalle rare partite che disputano nelle coppe. Di conseguenza il calcio per la Sheriff non è più solo propaganda, ma anche una delle attività più remunerative.
Transnistria e Donetsk rimangono forse ancora difficili da ricordare o pronunciare, ma sono luoghi che abbiamo conosciuto nel calcio così stiamo conoscendo il Midtjylland, un altro nome per noi difficile che però rappresenta una regione del nostro continente, e un altro modo di pensare il calcio. È infatti la squadra di Herning, città con meno di 90 mila abitanti immersa nella piatta campagna dello Jutland centrale, in danese Midtjylland. Con appena vent’anni di storia, di recente la squadra dello Jutland centrale è riuscita a imporsi rapidamente come una delle migliori in Danimarca vincendo tre titoli in dieci anni, che sono stati quindi tolti alle grandi squadre di Copenaghen, la capitale. Il Midtjylland lo ha fatto poi a modo suo con i metodi di gestione analitici e innovativi della sua proprietà inglese, la stessa del Brentford, non a caso una delle recenti sorprese della Premier League. In Inghilterra però la ricerca di nuovi vantaggi sugli avversari è stata difficile e ha richiesto tempo: nel più equilibrato campionato danese, invece, le intuizioni del Midtjylland su certi aspetti fin lì trascurati del gioco, dai metodi di scouting allo studio approfondito dei calci piazzati, hanno avuto un impatto enorme, cosa ormai rara da vedere nell’ultra competitiva Europa del calcio. Nell’anno del suo primo titolo nazionale il Midtjylland segnò 24 gol in più della seconda classificata, una differenza che rispecchiava quasi esattamente i 25 gol segnati sui calci piazzati, più del doppio delle altre squadre, che al massimo erano arrivate a 11.
I risultati eclatanti ottenuti da una piccola e semi-sconosciuta squadra di provincia vennero dunque analizzati a fondo dalle avversarie, tanto che nel giro di due anni tutte le squadre del campionato danese migliorarono gli aspetti del gioco vulnerabili scovati in precedenza dal Midtjylland, che però quando perde un vantaggio ne ha già altri da esplorare. In Europa la sua storia è stata scandita in particolare dalle vittorie ottenute contro il Manchester United nel 2016 e più di recente contro la Lazio, battuta 5-1 in Danimarca: da quella sconfitta poi la Lazio si è presa il centrocampista che le diede più problemi, Gustav Isaksen.
Plzen invece si poteva conoscere già, ma non per il calcio: più probabilmente perché è la città che ha dato il suo nome alla birra pilsener, perfezionata in città nell’Ottocento e prodotta ancora lì dalla Pilsner Urquell. Dagli anni dieci del Duemila, però, Plzen è anche calcio, con il Viktoria, una squadra che per decenni rimase in secondo piano con la sua funzione da dopolavoro aziendale per i dipendenti della Skoda, casa automobilistica fondata in città negli anni Venti che per un periodo diede anche il nome alla squadra. Proprio Skoda ha avuto un ruolo fondamentale come principale partner economico a sostegno delle ambizioni del club nei primi Duemila, aiutata dal calo storico delle due grandi “S” di Praga, Sparta e Slavia. Il primo titolo ceco è arrivato nel 2011 e da lì club è riuscito a capitalizzare ogni vittoria e soprattutto ogni partecipazione alle coppe europee, che con gli abbondanti premi distribuiti dalla UEFA possono cambiare completamente la storia dei club, specialmente nei campionati secondari, quelli in cui di soldi ne girano meno. Nella stagione 2022/23, per esempio, il Viktoria Plzen ha guadagnato circa 19 milioni di euro dal suo percorso europeo, quasi 15 milioni in più dello Slavia e di fatto 19 milioni in più dello Sparta, che ha giocato un solo turno preliminare. Con questi guadagni il club di Plzen riesce a stare costantemente al passo delle squadre più popolari e attrezzate della capitale.
È un po’ quello che ha fatto da noi l’Atalanta, che non è più l’Atalanta di provincia dei decenni scorsi, ma una squadra con ambizioni europee che rimane pronta a sfruttare ogni occasione che si presenta per accrescere risultati, reputazione e bilanci. Da quando nel 2022 arrivò a un minuto da una semifinale di Champions League, negata soltanto dai gol allo scadere del Paris Saint-Germain, il pubblico estero sa che in Italia c’è un’altra squadra nerazzurra che gioca in Europa, e che quella squadra è di Bergamo.
Altre realtà simili a volte si nascondono dietro una sigla, o dietro le abitudini che spesso ci inducono a dare per scontato le cose che abbiamo sotto gli occhi. Se si dice PSV l’associazione con la squadra di calcio viene quasi automatica, aiutata dal fatto che almeno quattro generazioni di tifosi hanno sentito pronunciare quell’acronimo. Nei Paesi Bassi il PSV Eindhoven fa parte di quel trio completato da Ajax e Feyenoord che da sempre si spartisce i titoli nazionali: solo che Amsterdam e Rotterdam si avvicinano al milione di abitanti, mentre Eindhoven non arriva a 250 mila, viene dopo l’Aia e Utrecht e per grandezza se la gioca al massimo con Groninga. Ma il PSV sta tutto in quella sigla, che sta per Associazione Sportiva Philips, dal nome dell’azienda di apparecchiature elettroniche che nel 1913 diede ai suoi dipendenti una squadra di calcio per festeggiare i cent’anni di indipendenza olandese dalla Francia. In un secolo Philips ha sparso quasi 80 mila dipendenti in tutto il mondo e raggiunto un fatturato di 17 miliardi di euro, che sono serviti anche a rendere il PSV un club storico del calcio europeo e a fissare Eindhoven sulla mappa.