Te Rehutai: in lingua maori significa “spuma del mare”. Ma per i detentori dell’America’s Cup, non bastava a identificare la barca pronta ad affrontare Luna Rossa Prada Pirelli – a partire dal 10 marzo – e così ecco un’interpretazione più complessa, peraltro nello spirito del popolo indigeno della Nuova Zelanda: “Dove l’essenza dell’oceano rinvigorisce ed energizza la nostra forza e determinazione”. Poesia pura, una visione fortemente legata alla natura e al mare perché la Nuova Zelanda è rugby, vela e remo. Gli All Blacks della palla ovale non necessitano di presentazione, mentre non è un caso che i quatto ori della spedizione kiwi alle Olimpiadi 2016 siano arrivati dagli sport d’acqua. Poesia si diceva, ma sempre legata a una feroce determinazione nel portare a casa il risultato che nel caso dell’America’s Cup – se gareggi per una sperduta Nazione da 4,8 milioni di abitanti – fa la differenza. I ‘cugini’ della vicina Australia, che hanno una popolazione e un PIL cinque volte superiore – sono stati i veri avversari degli americani per due decenni sino a strappare il trofeo a Newport nel 1987, con la mitica Australia II. Ma dopo aver organizzato e perso l’edizione seguente a Fremantle, sono usciti di scena e sostanzialmente non hanno combinato più nulla.
Quella della vela in Nuova Zelanda è una storia che parte da lontano, intorno al 1840 quando sulla spinta dei coloni inglesi arrivati all’inizio del XIX secolo, si iniziò a usare le barche da lavoro per competizioni davanti ai porti. Erano le peach boats, così chiamate per l’utilizzo prevalente, ossia trasportare pesche e altri prodotti della terra: consentivano di gareggiare anche ai maori e questo – sostanzialmente – fu una delle ragioni per cui una trentina di anni dopo, l’élite anglosassone iniziò a far costruire vere barche a vela per divertirsi tra loro, senza mischiarsi al popolo. Da qui i primi cantieri – che iniziarono a vendere barche in Australia nel 1890 – e i primi yacht club, copia esatta di quelli di Sua Maestà. I bianchi meno abbienti trovarono comunque il modo per regatare, facendo dei mullets (barche da pesca lunghe sette metri) una “macchina da regata”, antesignana dello skiff e protagonista nei primi anni del Novecento, tanto da animare persino scommesse sulle gare. La passione per le barche open e veloci, che si esprime tuttora con decine di modelli, è nata in quell’epoca.
Il vero boom velico si sviluppò tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’inizio della seconda: ad Auckland vennero fondati dieci yacht club e nuove classi a deriva conquistarono il pubblico mentre progressivamente i maori si dedicarono esclusivamente al più popolare rugby. A dare grande impulso alla vela fu il nuovo governatore generale, John Rushworth Jellicoe, spedito agli antipodi dopo il mezzo disastro della flotta inglese nello battaglia nello Jutland: velista appassionato, promosse sensibilmente lo sport della scotta quando gli All Blacks non erano ancora tali, né invincibili. Nel secondo dopoguerra, sono stati gli skiff – come in Australia – a prendere il sopravvento: 14 e soprattutto 18 piedi. Velocissimi e acrobatici, perfetti per brevi e adrenaliniche regate nei golfi. Per il salto di qualità, furono necessarie le Olimpiadi 1952 nella vicina Melbourne (primo oro di una lunga serie) e a fine anni Sessanta le prime partecipazioni alle corse oceaniche e alle Ton Cup, con buoni risultati. Soprattutto, nel decennio successivo, arriva una generazione di yacht designer preparata e innovativa (Bruce Farr, Laurie Davidson, Ron Holland) che progetta barche per armatori in tutto il mondo. Negli anni Ottanta, disegneranno finalmente imbarcazioni per i neozelandesi con i budget adatti a regatare lontano da casa: a quel punto, i kiwi iniziano a essere temuti a ogni latitudine.
Certo senza l’edizione oceanica di Fremantle – nel senso che sino a quel momento si correva nelle acque della placida Newport, R.I. – i kiwi probabilmente non sarebbero mai entrati nel grande gioco o quantomeno avrebbero impiegato un decennio in più. Invece, il mondo scoprì che i velisti con la maglietta nera facevano paura, anche senza la haka dei fratelli rugbisti: al debutto, raggiunsero la finale della Louis Vuitton Cup fermati solo da ‘Big’ Dennis Conner che riportò in patria il trofeo con Stars & Stripes. Un esordio segnato da ‘Plastic Fantastic’, il primo 12 metri costruito in vetroresina e materiali compositi nella storia dell’America’s Cup. Perché i neozelandesi, oltre a essere ottimi velisti (tra l’altro subito dopo il risultato di Fremantle, conquistarono per la prima volta l’Admiral’s Cup, ossia il Mondiale a squadre) hanno sempre interpretato la regata al limite: non potendo competere come budget rispetto ad altre sfide, le innovazioni tecniche e un’indubbia malizia sono sempre state affare loro. Rischiò di farne le spese Raul Gardini, nel 1992, quando nella finale contro Team New Zealand – con Il Moro di Venezia sotto per 1-4 – protestò per l’uso scorretto del bompresso, accusandoli apertamente di essere disonesti e imbroglioni. La giuria, a malincuore, intervenne e senza l’appendice fuori legge, i gardiniani rimontarono i rivali e vinsero 5-4..
Dopo aver corso una prima finale – ma fu quella assurda dell’edizione ‘88, dove il catamarano di Conner sconfisse il loro maxi-monoscafo – i neozelandesi hanno preso il passo giusto nel 1995, conquistando il trofeo a San Diego, nonostante il clamoroso richiamo alle armi dei detentori statunitensi. Rendendosi conto del pericolo, misero da parte le rivalità tra consorzi e sulla barca ritenuta migliore fecero salire i più bravi scelti nei vari equipaggi. Ma i kiwi guidati in barca da Russell Coutts e Sir Peter Blake non diedero scampo: impresa storica, basta vedere le immagini dell’arrivo ad Auckland con il trofeo conquistato. Nel 2000, gli eroi respinsero il primo assalto di Luna Rossa, senza faticare troppo. Poi, forse inevitabile, addii e separazioni. L’ingegnere-velista Coutts si è macchiato la fedina passando alla ricchissima corte svizzera di Ernesto Bertarelli e diventando l’anima di Alinghi, con vantaggi immediati ma una successiva separazione. Blake, invece, è finito nell’empireo dei velisti ed esploratori: dopo una carriera pazzesca (aveva vinto anche il Giro del Mondo e il Trofeo Jules Verne), iniziò a vagare per gli oceani sulle orme del suo mito Jacques Cousteau, finendo assurdamente ucciso dai “ratos de aqua” a Macapà (Brasile), nel dicembre 2001. Fu lutto nazionale.

L’eredità tecnica – quella umana è impossibile – è stata raccolta da Grant Dalton, dopo la sconfitta nel 2003. Grande navigatore, super appassionato di moto da corsa (ha corso un’edizione del terribile Manx Gran Prix) ha imparato a gestire ed è stato capace di portare per tre volte Emirates Team New Zealand in finale. Nel ruolino, due sconfitte, una di misura nel 2007 e una clamorosa nel 2013 a San Francisco quando Bmw Oracle rimontò da 1-8 per vincere 9-8: dolore massimo, a guidare la sfida del magnate Larry Ellison c’era il traditore per eccellenza Coutts. Se volete rendere di cattivo umore un amico neozelandese, ricordategli la rimonta e sottolineate che Russell è stato un fenomeno (in effetti lo è). Lo sport peraltro offre (quasi) sempre la possibilità di rifarsi. Quattro anni dopo, a Bermuda, Emirates Team New Zealand si vendicò di chi l’aveva battuto grazie anche alla scelta di un fenomeno della vela quale Peter Burling: oro e argento olimpico, sette volte campione mondiale in tre classi e via dicendo. Un trentenne – roccioso di fisico e carattere – cresciuto a pane e foil, guarda caso la novità tecnica sostanziale di questa America’s Cup.
Burling è pronto a scontrarsi con il duo composto da Francesco Bruni e James Spithill. Il primo è stato uno specialista del 49er, classe dove ‘Pistol Pete’ è stato imbattibile per quattro anni. Il secondo si ricorda ancora del quasi cappotto alle Bermuda quando era la timone di Bmw Oracle. In verità, in questa serie, è Dalton che si giocherà molto della sua fama: a 63 anni si trova di fronte Luna Rossa e – diciamo così – pare aver scordato il rapporto storico con gli italiani che conosce benissimo e sono stati generosi con lui, quattro anni fa. «Li abbiamo aiutati a Bermuda, abbiamo concordato gli AC75, abbiamo sponsorizzato la Prada Cup. Cosa vogliono di più? Mi sembra tutto esasperato, eccessivo. Quando il capo era Schnackenberg, veniva a mangiare gli spaghetti alla nostra base, con Dalton è tutto più difficile», ha tuonato patron Bertelli di fronte alle continue provocazioni dei neozelandesi sulle regole dell’evento e i campi di regata. Fuori i secondi, c’è in ballo (finalmente) l’America’s Cup.