Cristiano e Zlatan, fenomenologia di una leadership
Ancora una volta, Cristiano Ronaldo e Zlatan Ibrahimovic si sono presi la scena: è ormai un rito irrinunciabile, un’abitudine fissa che si ripete partita dopo partita. Sei gol per il portoghese in campionato, otto per lo svedese: al di là dei numeri (spaventosi: ed entrambi non hanno giocato due partite finora, causa virus) il dato più impressionante è che hanno segnato in ognuna delle gare di A in cui sono scesi in campo. Significa che la loro squadra parte da 1-0, se non da 2-0: ed è decisamente un vantaggio, a livello mentale, imparagonabile – soprattutto di questi tempi: si gioca ogni tre giorni, senza sosta, con un calendario congestionato, e dove non arriva il fisico arriva la mente. Lo stesso Ibra, dopo il 2-2 contro il Verona, ha ammesso la fatica: «Sono stanco, mi è mancata lucidità davanti la porta», e comunque, dopo il rigore sbagliato, è stato lui l’uomo più pericoloso dei rossoneri, fino al gol del pari segnato a tempo scaduto. In questo avvio di stagione, Ibra è la garanzia delle ambizioni del Milan che mantiene il primato in classifica: nella testa dei suoi compagni di squadra il poter fare affidamento su di lui, forti della consapevolezza che prima o poi inciderà sul match con il suo strapotere fisico e tecnico, è una carica di autostima enorme, e dopo quasi un anno l’”incantesimo” sembra poter essere eterno. In casa Juventus, scottata da un match contro la Lazio in cui la disattenzione nel finale è costata due punti, la situazione è diversa e simile allo stesso tempo: le prestazioni raccontano come la squadra debba ancora ingranare, e il ruolo da campioni d’Italia impone una coscienza diversa rispetto a quella di un Milan giovane che nel suo leader tecnico ritrova le proprie certezze. Eppure la Juve si sta aggrappando a Ronaldo, al suo istinto per il gol, più di quanto succedeva nelle scorse stagioni – nonostante i numeri realizzativi siano sempre stati fantasmagorici. Nella Serie A turbinosa di oggi la forza mentale conta più di quella fisica, e le prestazioni di questi due campioni, nonostante gli anni, lo stanno a dimostrare.
Henrik Mkhitaryan, importanza e discrezione
Sono dieci anni che sentiamo parlare di Henrik Mkhitaryan. Forse non è stato sempre continuo nel suo rendimento, ma il suo talento è riuscito a manifestarsi a intervalli più o meno regolari, come se fosse inevitabile. Anche a Roma è andata allo stesso modo: l’armeno è arrivato un anno fa, il suo acquisto non è stato un evento mediatico, lui non ha giocato tantissimo (19 gare da titolare in tutte le competizioni, due infortuni muscolari importanti, a ottobre a gennaio) eppure ha segnato nove gol. Quest’anno è andata diversamente: è sempre stato a disposizione, Fonseca non ha mai rinunciato a lui, nessuno l’aveva notato fino a ieri, fino al giorno della tripletta segnata al Genoa, eppure Mkhitaryan aveva già messo a referto un gol (in Europa League, contro il Cluj) e quattro assist decisivi. La sensazione è che Mkhitaryan agisca nell’ombra, prepari il terreno alla sua esplosione, poi avviene la detonazione e noi ci ritroviamo di fronte a un giocatore che è diventato indispensabile nel gioco della sua squadra, che l’ha fatto con discrezione, senza che ce ne accorgessimo. Un processo che è riuscito benissimo allo Shakhtar (nella sua ultima stagione in Ucraina ha segnato 29 gol) e al Borussia Dortmund, un po’ meno al Manchester United e all’Arsenal, dove ha dovuto far fronte a una concorrenza più serrata ma ha anche dovuto districarsi all’interno di progetti non proprio centrati – Mourinho a Old Trafford, Unai Emery all’Emirates. Ecco, magari è proprio questo il punto: Mkhitaryan non è (mai) stato un fuoriclasse di primo livello e ha bisogno di sentirsi parte centrale di una squadra coerente, come sembra essere diventata la Roma di Fonseca. Se tutti gli incastri riescono, però, l’armeno è un elemento prezioso, intelligente, in grado di giocare bene, anzi di essere decisivo, in tutte le zone del campo. Come ieri, quando in pratica lui e Pedro hanno dovuto sostituire Dzeko, dopo l’uscita dal campo di Borja Mayoral, ma forse anche prima, quantomeno per leadership; i tre gol segnati a Perin, tutti molto belli, sono solo una parte del suo enorme contributo alla Roma vista a Marassi, perché poi ci sono stati i passaggi, le aperture, le rifiniture sprecate, insomma c’è stato tutto ciò di cui la Roma aveva bisogno. E alla fine tutti si sono accorti di Mkhitaryan, finalmente, giustamente.
La prima tripletta di un calciatore armeno in Serie A
L’Inter è un cantiere (ancora) aperto
Se il pareggio in casa dell’Atalanta fosse arrivato al termine di un ciclo di risultati positivi, non ci sarebbero molti motivi di preoccupazione. L’Inter, però, ha mostrato di essere una squadra (ancora) in costruzione anche a Bergamo, contro un avversario che a sua volta sembra aver smarrito parte della sua forza, della sua imprevedibilità. Antonio Conte, fin dall’inizio di questa stagione, ha provato a trasformare l’Inter in qualcosa di diverso, a fare evolvere la sua squadra: l’inserimento di Hakimi e Vidal, ma anche quello di Kolarov in difesa, ha spinto il tecnico salentino a cercare sinergie nuove e (più) offensive rispetto al passato, e questo tentativo gli è costato molto per quanto riguarda il numero di gol subiti – sono già 16 in dieci partite stagionali di tutte le competizioni. Contro l’Atalanta, l’Inter ha dovuto e anche voluto rinunciare a un po’ di talento in fase di costruzione del gioco – Kolarov assente, Lukaku a mezzo servizio, Eriksen e Hakimi in panchina – ed è parsa più solida in fase difensiva; allo stesso tempo, però, i nerazzurri hanno mostrato diverse difficoltà in attacco, gran parte delle azioni sono state costruite in maniera fin troppo lineare e quindi ripetitiva; il gol è nato da una splendida intuizione di Lautaro Martínez su un cross arrivato da sinistra, ma poi è arrivato il pareggio di Miranchuk, in uno dei pochi tiri puliti concessi all’Atalanta. Insomma, l’Inter di Conte è un cantiere aperto, è una squadra ancora alla ricerca del suo equilibrio, del compromesso inevitabile tra ciò che vuole fare e ciò che può fare, almeno in questo momento; certo, come detto c’erano e ci sono da inserire i nuovi acquisti in un sistema tattico dagli angoli spigolosi, ma forse era lecito aspettarsi qualcosa di più a questo punto della seconda stagione con Conte, per fluidità di gioco e continuità dei risultati. La sosta arriva al momento giusto, al rientro i nerazzurri dovranno necessariamente cambiare marcia se vogliono inseguire ambizioni importanti, in Serie A e in Champions League.