È da trent’anni che in Premier League nascono le maglie più belle del mondo

L'estetica del campionato inglese è semplicemente inarrivabile. Perché i club, la lega e i brand hanno saputo mescolare tradizione e innovazione, e così hanno creato un look unico.

Gli elementi più tradizionali e rappresentativi di un paese nascono spesso in situazioni di difficoltà. Pensiamo alla cucina italiana: benché considerata un’eccellenza mondiale, nasce spesso da lavorazioni semplici atte a valorizzare ingredienti poveri, tipici di quella che è stata poi definita “cucina di recupero”. Allo stesso modo tante correnti artistiche, specie le più contemporanee, nascono dalla volontà di creare qualcosa di unico dal poco che si aveva tra le mani. Pure nel calcio, pensandoci bene, esistono casi del genere. Basta guardare all’Inghilterra e alla sua estetica. Se oggi la Premier League è il motore che fa girare il calcio nel mondo, un tempo era provincia. Quando nacque il formato denominato ufficialmente Premier League nel 1992, la sensazione di amatorialità era palpabile in alcuni aspetti.

Le grandi novità

Ma, come detto, è spesso in questo ecosistema di rivoluzione inconsapevole che nascono cose destinate a durare. L’estetica della Premier League nasce qui: ancora non esisteva il font unificato che ha reso questo campionato così riconoscibile, ma solo una piccola patch sulla manica di colori bianco e blu, con dettagli rossi e verdi a creare un elemento comune per certi versi rivoluzionario che in Italia adotteremo solo nel 1996/97. Fino al 1997, seppur i club usavano font creati dal brand responsabile per le maglie da gioco, già esistevano indicazioni chiare: bisognava usare solo lettering serif e bold, a riprendere l’estetica degli sport americani. Inoltre, la nuova Premier League aveva introdotto l’uso dei nomi sulle maglie e l’assegnazione dei numeri a inizio stagione a un giocatore predefinito, un’altra grandissima rivoluzione che ci ha permesso (e permette tuttora) di innamorarci di associazioni nome-numero iconiche che sarebbero state impossibili in precedenza. Sarebbe inconcepibile immaginare Thierry Henry senza il numero 14, Paul Scholes senza il 18, John Terry senza il 26 o Yaya Touré senza il 42.

Serviva un nuovo segno di riconoscibilità ed è per questo che è nato il font unico, dando una sterzata al concetto di marketing e comunicazione nel mondo del calcio. Questo elemento, rinnovato poi quattro volte, per ultimo nel 2023/24, ha dato vita a quello che ogni appassionato di maglie da calcio ha riconosciuto immediatamente come un segno distintivo della Premier. In un periodo storico in cui le maglie da calcio non erano facili da reperire fuori dal Paese di origine, avere una maglia della Premier League con quel font così particolare (parliamo del primo, quello del periodo 1997-2007) e dall’effetto scamosciato era qualcosa in grado di far salivare gli appassionati.

Tradizione locale: Umbro e Admiral

Partendo dall’assunto che le maglie inglesi avevano già di base degli elementi così distintivi, non fu difficile vedere nascere una vera e propria corrente estetica. Con mezzi inferiori rispetto ad altri campionati, in Inghilterra era comune utilizzare per le maglie da gioco template già visti altrove. La celebratissima maglia casalinga del Crystal Palace nel biennio 1996.98, ad esempio, non era altro se non quella usata dal Bayern Monaco nel 1995-97 ma, grazie al badge e al font così particolare, guadagnava un sentimento di originalità.

Dato che i marchi più grandi riciclavano spesso i propri design, un grosso supporto alla nascita e allo sviluppo dell’estetica inglese lo dobbiamo a un brand locale, anzi due: Umbro e Admiral, che al debutto della Premier League sponsorizzavano 15 squadre su 22. A loro dobbiamo molte intuizioni di design quali i loghi tono su tono, i bordi delle maniche a contrasto con la ripetizione del logo e le alterazioni dei colletti rispetto alle opzioni standard: girocollo o polo. Come Umbro ha interpretato i colori, i contrasti, i pattern e i dettagli dei colletti possiamo vederlo su un’infinità di maglie diventate poi storiche: pensiamo al capolavoro creato per il Manchester City nel 1993-95 (la cui notorietà la dobbiamo più che altro ai fratelli Gallagher), a quasi ogni maglia del Manchester United tra il 1992 e il 2002, con il picco raggiunto nel 1993/94 in cui vennero presentate tre maglie perfette – la home con il colletto stringato, la away total black e la terza divisa in due grandi sezioni verticali giallo e verde.

A Umbro dobbiamo una grande iniziativa: la distruzione della tradizione. Il marchio inglese capì per primo che la Premier League necessitava di una rivoluzione per diventare riconoscibile e per questo decise di portare avanti kit unici, mai visti prima, come unico modo per differenziarsi dalla massa. Le maglie away del Chelsea tra il 1994 e il 1998 sono un esempio di questo concetto: colori mai visti prima, pattern sovrapposti e molta voglia di sperimentare.

Le maglie degli eroi

Il design rimane nel tempo ma sono spesso gli interpreti che le indossano a rendere le maglie iconiche. Lo sa benissimo PUMA, la cui creazione per il Leicester City nel 2015/16, per la verità un template usato per molti altri club, rimarrà nella storia grazie alla cavalcata epocale dei ragazzi di Ranieri, conclusasi con la vittoria del titolo. Un destino simile, seppur con un finale diverso, lo ha vissuto Nike quando realizzò le divise del Leeds United dal 2000 al 2002 che, indossate da Harry Kewell e Mark Viduka, furono utilizzate in semifinale di Champions League. Col passare degli anni, la Premier League acquisì sempre più potere mediatico e giocatori di maggior rilievo, motivo per cui furono sempre più i brand che cercarono di farne parte.

Si arrivò a un record nel 2006/07 quando le 20 squadre della massima serie inglese furono rappresentate da 14 brand diversi. A marchi come adidas e Nike erano affiancati nomi importanti nel mondo del calcio come Hummel, Umbro, PUMA, Diadora e Le Coq Sportif, ma anche realtà inaspettate e tipiche quasi solo dei campionati inglesi come Lonsdale, Airness, JJB e Reebok. A quest’ultimo nome dobbiamo uno dei manifesti del calcio britannico quando si legò al Bolton. Prima infatti divenne main sponsor del club, con maglie prodotte da Matchwinner, salvo poi rappresentare in toto la squadra: sponsor tecnico, main sponsor, nome dello stadio e quasi unico marchio presente sui cartelloni pubblicitari a bordocampo. Un tripudio di Reebok che non sarebbe potuto succedere da nessun’altra parte al mondo, nemmeno nel basket quando il marchio rappresentava Allen Iverson e Shaquille O’Neal.

Ode all’Arsenal

Molto dell’estetica inglese però la dobbiamo a un singolo club: l’Arsenal. Dall’estetica del logo all’uso del giallo sulle maglie away, i Gunners hanno creato un’iconografia che non avevamo mai visto e che è stata innalzata ulteriormente da adidas prima e da Nike poi. Inoltre, l’Arsenal e le sue maglie sono una testimonianza della direzione della Premier League. Il leggendario Bruised Banana kit della prima stagione di Premier League è stato un biglietto da visita che ha mostrato a tutti una creatività unica, quella voglia di rottura e di differenziazione che voleva creare un percorso di crescita diverso. Le maglie di Nike di fine anni Novanta hanno poi unito tradizione (la maglia home 1998/99) al gusto dell’estremo (la maglia away 1995/96 con due toni di blu e il pattern a fulmine e la maglia oro 2001/03) fino all’omaggio del passato, un trend oggi sempre più frequente ma che l’Arsenal ha fatto prima (e meglio) rispetto a chiunque con la stupenda maglia granata del 2005/06 per l’ultima stagione dello storico stadio Highbury.

Una maglia della Premier League si riconosce al primo sguardo e, se questo succede, lo dobbiamo ad anni e anni di design rivoluzionari che gridavano al mondo “ci siamo anche noi”. Oggi la Premier League non ha più bisogno di mostrarsi al mondo ma, al contrario, sappiamo che, quando un brand andrà a ripescare negli archivi della Premier League, andrà a riportare alla luce un design che ha fatto la storia, nel tentativo di aggiungere un nuovo tassello nel percorso verso la creazione di un’estetica unica al mondo.

Da Undici n° 61

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