Raphinha doveva andare via dal Barcellona, e invece oggi è uno dei giocatori più decisivi al mondo

L'attaccante brasiliano era considerato un esubero, ma poi l'incontro con Flick ha stuzzicato il suo grande orgoglio, la sua personalità sfrontata. E oggi è tutta un'altra storia.

Non è facile trovare una spiegazione per un fenomeno inaspettato. Ci si interroga sulle possibili cause, ci si chiede se fosse possibile prevederlo. Nel mentre lo si osserva affascinati, pensando a quanto ancora possa durare. Per questo motivo, in molti continuano ad essere sorpresi davanti all’inarrestabile ascesa di Raphael Dias Belloli, più noto come Raphinha. Che, nel giro di otto mesi, è passato dall’essere un esubero a essere uno dei leader tecnici del Barcellona di Flick, la squadra più spettacolare d’Europa. Per molti, oggi, non è blasfemo parlare di lui come un candidato credibile alla vittoria del prossimo Pallone d’Oro. E se nessuno, lo scorso luglio, avrebbe potuto prevedere questo tipo di scenario, andando a ritroso è possibile individuare degli “indizi” tra le numerose dichiarazioni rilasciate dallo stesso Raphinha. Un uomo che ha sempre scommesso su sé stesso, facendo leva sulla caratteristica che più di tutte lo caratterizza: la mentalità. La sua testa gli ha concesso di non cadere nel giro malavitoso che ha risucchiato molti dei suoi amici, in un’adolescenza trascorsa tra le favelas. La sua determinazione gli ha consentito di superare i momenti difficili, attraversando l’Europa fino ad arrivare a Barcellona. La sua convinzione lo ha portato dov’è oggi, ovvero nell’élite del calcio mondiale.

Per capire come questa trasformazione sia avvenuta in un periodo di tempo così breve, si possono individuare tre momenti. Il primo risale a circa un anno fa. È il 16 aprile, siamo allo stadio Montjuïc di Barcellona e la squadra di Xavi è appena stata sconfitta per 4-1 dal PSG nel match di ritorno dei quarti di finale di Champions League. Il risultato è pesante e manda la squadra catalana fuori dalla Champions, in campo c’è un giocatore che sembra davvero più ferito degli altri: è proprio Raphinha, che avvicinandosi alla curva si ferma accanto al palo e gli tira un calcio, per poi prendere a pugni il manto erboso dopo essere crollato in ginocchio. La stagione si concluderà in modo fallimentare per il Barça, senza trofei e con lo scotto di assistere al doppio trionfo del Real in Champions e in Liga, per altro dopo aver perso – sempre contro la squadra di Ancelotti – la finale di Supercoppa di Spagna.

Il secondo momento si verifica in estate, dopo il trionfo della Spagna agli Europei. Con la nazione in festa, sono due gli eroi che si prendono più spazio sulle copertine e sugli smartphone: uno il Barcellona ce l’ha in casa, ed è Lamine Yamal. L’altro, invece, è Nico Williams, dominante sulla fascia opposta e dato in partenza da Bilbao. Il tifo blaugrana, di conseguenza, sogna che la dirigenza possa regalare al nuovo allenatore, il tedesco Hansi Flick, la coppia di ali che ha fatto impazzire le difese avversarie. Per far posto all’esterno basco, però, il giocatore da sacrificare sarebbe proprio Raphinha, in un’operazione che rappresenterebbe, sia in campo che a livello simbolico, un taglio netto con il ciclo di Xavi. I tifosi fremono e sui social girano senza pietà delle immagini della nuova maglia del Barça con il numero 11, quella di Raphinha. Solo che il nome è quello di Williams.

Qualche mese più tardi, il brasiliano ha rivelato che quelle immagini lo avevano colpito parecchio: «Ho sentito una mancanza di rispetto nei miei confronti, mi hanno ferito», ha dichiarato in conferenza stampa prima del match di Champions contro il Bayern Monaco. «Quelle foto hanno innestato in me molti dubbi. Vedevo molti contenuti per cui il Barça voleva vendermi, secondo altri post i tifosi volevano che me ne andassi, quindi ho pensato di lasciare, per ricominciare in una squadra senza avere quel tipo di pressione». La stessa idea che, stando a un’intervista rilasciata a ESPN, Raphinha aveva già avuto in passato: «Da quando sono arrivato dal Leeds, ci sono stati alcuni momenti in cui mi è passata per la testa l’idea di andar via da Barcellona. Ho l’abitudine di essere molto critico e duro con me stesso, e quando non giocavo al meglio la pressione era difficile da gestire».

Se tutti gli indizi, dunque, facevano pensare a una separazione tra giocatore e club, perché alla fine Raphinha è rimasto? La risposta arriva con il terzo – e decisivo – momento: il 29 maggio scorso il Barcellona ha annunciato l’arrivo di Hansi Flick come nuovo allenatore, e un paio di mesi dopo il tedesco ha contattato Raphinha. È stato proprio Raphinha a raccontare, in un’intervista a Globo Esporte, come la conversazione con il suo nuovo allenatore sia stata decisiva nel convincerlo a restare. Come una scintilla che lo ha riacceso, facendo bruciare il senso di rivalsa che aveva accumulato nell’ultimo anno: «Dopo la Copa América», ha detto Raphinha, «non ero più a mio agio, e sentivo di dover andare via. La stagione appena conclusa era stata molto difficile, molte persone mi chiedevano di lasciare il club. Poi, però, mi ha chiamato Flick. Mi ha chiesto di venire ad allenarmi prima di prendere qualsiasi decisione. Voleva parlare con me, e soprattutto credeva in me: quello è stato un punto di svolta. Ne ho parlato con mia moglie e ho detto: “Se Flick pensa davvero questo di me, glielo dimostrerò sul campo. Non se ne pentirà”. Alla fine, credo di aver avuto ragione».

Oggi come oggi, risulta impossibile dargli torto. I numeri, del resto, sono chiari: 28 gol e 22 assist in 45 presenze stagionali con il Barcellona, quattro gol e un assist in sei partite con il Brasile nelle qualificazioni ai prossimi Mondiali. Semplificando, con lui in campo quest’anno si parte 1-0. E il primo passo per sbloccare questa sua nuova versione, così letale e incisiva, è arrivato con la nomina a capitano del Barça. O meglio: Raphina oggi è uno dei capitani della squadra blaugrana, insieme con Ter Stegen, Araujo, Pedri e De Jong. Dopo aver manifestato tutto il suo entusiasmo in un’intervista al canale ufficiale del club, Raphinha ha parlato del modo in cui si considera un leader: «Durante la mia carriera ho cambiato molte squadre, quindi so quanto è importante ricevere una buona accoglienza e sentirsi considerati. L’esser stato scelto come capitano del Barcellona viene un po’ dal mio modo di essere, perché cerco di aiutare un po’ tutti, di andare d’accordo con tutti, sia con i giovani che con i più esperti». Secondo lui, il vero leader non si vede in campo ma nello spogliatoio: «Credo che la vera leadership sia riconosciuta nella vita di tutti i giorni. In una squadra, i giocatori imparano a riconoscere i leader in questo modo, ma un bravo leader deve essere sempre pronto a imparare anche dai più giovani. E io credo di essere sulla strada giusta, per insegnare qualcosa e per continuare ad imparare».

Se l’investitura a capitano lo ha sbloccato a livello mentale, il lavoro fisico e tattico di Flick e del suo staff lo sta rendendo inarrestabile. A differenza di Xavi, che lo relegava ai limiti della linea laterale per cercare di isolarlo in uno contro uno con l’avversario, il tecnico tedesco gli concede molta più libertà di movimento. Il calcio del Barcellona si è fatto più verticale, e Raphinha può scegliere il corridoio migliore per attaccare la profondità sfruttando le sponde di Lewandowski e i lanci di Yamal, che ha compiti decisamente più creativi rispetto al brasiliano. La riaggressione altissima e soffocante consente ai blaugrana di giocare molti palloni nella trequarti avversaria: uno scenario che Raphinha ha definito «ideale per qualsiasi giocatore offensivo».

E se, da buon brasiliano, caratteristiche come tecnica e velocità sono presenti in abbondanza, la sua “atipicità” consiste nella cattiveria agonistica che mette in campo. Nella determinazione, nel pressing, nella garra. Raphinha è infatti un calciatore che sa come affrontare anche le partite più sporche, che non si tira indietro davanti a niente, perché nel corso della sua infanzia ha affrontato momenti che lo hanno temprato in questo senso. In questo senso, ha raccontato a El Paìs che alcuni dei suoi amici erano molto più forti di lui tecnicamente, ma sono caduti nel giro della droga, o comunque non hanno resistito alle tentazioni malavitose che si presentavano quotidianamente nelle favelas: «Oggi, puoi essere il migliore tecnicamente, ma senza disciplina… Se non sei consapevole che dovrai soffrire stando lontano da casa, lontano dai tuoi amici o dalla vita notturna, se non pensi di dover lasciar perdere, la tecnica è inutile. La tecnica è importante, ma deve andare di pari passo con il lavoro».

Ci vogliono dieci minuti per vedere tutti i gol e tutti gli assist di Raphinha in questa stagione

Del resto, Raphinha si è formato in ambienti in cui, al termine degli allenamenti, doveva aspettare parecchio per un bus che lo portasse a casa. Dove non c’era una doccia e poco da mangiare, e quando provava a chiedere del cibo gli davano del barbone. E prima ancora di entrare in un’accademia vera e propria, giocava in un contesto che ha descritto in questo modo: «Il campo era di terra, polvere e sabbia. C’era un caldo insopportabile. Qualcuno portava un pallone da casa, una squadra giocava con delle maglie e l’altra senza. E chi scendeva in campo, spesso, era un reietto. Giocava con rabbia, per sopravvivere. Giocava come se la sua vita dipendesse da quella partita. Sugli spalti, poi, era comune vedere qualcuno con una pistola, e se stavi per segnare un gol capitava di sentire uno sparo intimidatorio, verso l’alto».

Di conseguenza diventa molto più facile, dopo aver immaginato questo scenario, comprendere l’atteggiamento di Raphinha. Vederlo strappare un pallone a Barrios con un pressing furioso al limite dell’area dell’Atlético, per consegnare a Ferran Torres l’assist del 2-4 al minuto 98′, è lo specchio del suo modo di stare in campo. Atteggiamento che lo sta portando a essere un campione che sa esaltarsi soprattutto nelle grandi sfide. Come i due Clásicos giocati – anzi: dominati – quest’anno dal Barça, in cui ha segnato tre gol. Come la sfida di Champions, contro il Bayern, quando segnato una tripletta, oppure ancora l’andata dei quarti contro il Borussia Dortmund: due assist e un gol letteralmente rubato a Pau Cubarsí. Quando si diceva la determinazione feroce.

Raphinha non ha paura di queste sfide, e i successi di questa stagione hanno aumentato enormemente la sua self-confidence. Tanto che, prima del match tra Argentina e Brasile, si è sentito in dovere di incendiare la sfida con quel: «Li batteremo dentro e fuori dal campo, e segnerò un gol. Fanculo a loro». Le sue dichiarazioni, in risposta a una domanda di Romário, hanno inevitabilmente fatto il giro del mondo, e hanno reso la caduta – sua e del Brasile – ancora più fragorosa. Con gli argentini ad incitare il Monumental dopo il 4-1, con il «minuto di silenzio per Raphinha». E per quanto questa situazione abbia creato scalpore, il fatto che proprio Raphinha si trovi al centro dello spotlight sembra passato quasi in secondo piano. Sembra incredibile, ma è lo stesso Raphinha che era pronto, appena otto mesi fa, a salutare Barcellona da un’anonima porta sul retro. E che si sta prendendo lo status di stella, con un’esplosione tanto veloce quanto inaspettata.

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