E così siamo sempre allo stesso punto. Pieni di buone intenzioni, rinnovate speranze, rendering di ultima generazione. Ma tra le mani, di concreto, resta ogni volta ben poco. Come quando stringi un pugno pieno di sabbia, lo riapri e noti che, nonostante il vigore della stretta, non ne rimane che qualche inutile granello. E non è su quei pochi granelli sparsi che si costruisce un castello. Figurati uno stadio. Passano gli anni, in Italia cambiano le amministrazioni, i governi. Nel calcio cambiano le proprietà, si susseguono i progetti. Ma se c’è una cosa che sembra non cambiare mai, quella è l’incapacità generale nel trovare una soluzione ad un problema ormai trentennale, sicuramente tutto nostrano: la costruzione di nuove infrastrutture sportive all’altezza degli standard moderni.
Ed ecco che, nello stesso giorno in cui Milan ed Inter, a distanza di sei anni dai primi progetti, tornano al punto di partenza e presentano al Comune di Milano una proposta per l’acquisizione di San Siro e delle aree limitrofe, un Manchester United in piena crisi finanziaria annuncia la costruzione del suo nuovo stadio: costerà 2,5 miliardi di dollari e, con i suoi 100mila spettatori, sarà il secondo impianto più grande d’Europa, dopo il nuovo Camp Nou di Barcellona. Si stima che, ogni anno, porterà circa 1,8 milioni di visitatori nell’area e un guadagno di oltre sette miliardi di sterline all’economia Regno Unito.
Tutti i top club hanno costruito nuovi stadi
In Europa si guarda al futuro. Lo hanno fatto il Real Madrid, lo stesso Barcellona, il Tottenham, l’Everton, giusto per citare qualche esempio tra i più recenti. Stadi nuovi che ormai non sono più solo stadi, perché dentro hanno tutto: ristoranti, hotel, musei, negozi e anche veri e propri centri commerciali. Sono spazi vivibili tutti i giorni della settimana, attrazioni turistiche, nuovi poli urbani. Ospitano eventi, convegni, concerti. E, con un prato retrattile, ecco che un campo di calcio si trasforma in un parquet pronto magari ad accogliere LeBron James. Intanto, anche quest’anno la NFL tornerà in Europa per i suoi International Games: i campioni del football americano giocheranno a Londra, Madrid, Berlino, Dublino, ma delle nostre città ancora nessuna traccia.
C’è un mondo che va avanti e un’Italia che, per il momento, resta pericolosamente a guardare, con il rischio concreto di impantanarsi ancora di più. Il calcio italiano continua a veder crescere inesorabilmente il divario che lo separa da quelle che, oggi, sono le leghe di vertice. E, senza infrastrutture all’altezza, è impossibile pensare di poter competere. Lo spiega a Rivista Undici Marco Bellinazzo, giornalista de Il Sole 24 Ore ed esperto di sport business: «Inter e Milan, senza uno stadio di proprietà, perdono ogni anno almeno una cinquantina di milioni di euro a testa. Significa che, negli ultimi sei anni, cioè da quando hanno iniziato a muovere i primi passi per un nuovo San Siro, hanno perso 300 milioni di ricavi aggiuntivi. E ne perderanno altrettanti fino a quando non si realizzerà lo stadio».
Il problema degli stadi in Italia non sono (più) i soldi
«Ma il nostro non è un problema di carattere finanziario», continua Bellinazzo. «Oggi ci sarebbero tanti fondi proprietari con la possibilità di mettere risorse o comunque di attivare dei progetti di finanziamento ad alto livello. Il problema è che, se prendiamo l’esempio di Milano, in sei anni non è stata nemmeno espletata la procedura amministrativa per il nuovo stadio». Insomma, la solita, burocrazia che intrappola in un labirinto senza uscita ogni speranza di progresso: «Gli iter sono troppo lunghi e articolati, e frenano tutti i vari funzionari dall’assumersi un certo livello di responsabilità nei passaggi più delicati. Il danno che tutto ciò sta provocando al sistema calcio italiano è enorme: ogni anno perdiamo intorno ai 300-350 milioni di ricavi legati agli impianti sportivi. Significa che, negli ultimi dieci anni, abbiamo perso almeno 3,5 miliardi di euro. Ed è una stima assolutamente al ribasso».
Quando, nel 2011, la Juventus ha inaugurato il suo stadio, il secondo di proprietà in Italia dopo l’esperimento della Reggiana negli anni Novanta, la speranza era che potesse prendere vita una sorta di rinnovamento trasversale. Così non è stato. Il caso virtuoso dei bianconeri è rimasto solo un caso e, tra le big del nostro calcio, fatta eccezione per l’Atalanta (oggi proprietaria del rinnovato Gewiss Stadium), nessuna è riuscita a muovere passi concreti per un nuovo impianto. Ci ha provato il Milan prima con Barbara Berlusconi, poi con Elliott e RedBird. Ci hanno provato Roma ed Inter. Risultati? Zero, o quasi.
«La Fiorentina è, in quest’ottica, l’esempio di quello che va fatto e di quello che non va fatto», spiega ancora Bellinazzo. «Il Viola Park è un esempio lungimirante: 120 milioni di investimento per uno dei centri sportivi migliori d’Italia e non solo. D’altro canto, il progetto stadio è stato bloccato, mentre in questo momento si sta ristrutturando con soldi pubblici un impianto vecchio, mettendo tra l’altro la società nelle condizioni di dover giocare per anni in un cantiere e perdendo anche ricavi. Il presidente Commisso, che voleva invece investire di tasca sua in uno stadio nuovo, di qualità, che se glielo avessero lasciato fare a questo punto sarebbe già buon punto, è ora costretto a venire in soccorso della stessa autorità comunale, perché altrimenti non ci sono i fondi necessari quantomeno per coprire l’intera spesa. È un impianto che, anche se ristrutturato, non risponde comunque ai canoni della moderna football industry, perché ristrutturare uno stadio in questo modo significa comunque accettare, e subire, tutta una serie di vincoli architettonici. Vincoli che ti impediscono chiaramente di realizzarlo ex-novo con tutto quello che oggi uno stadio moderno deve essere».
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Nei mesi scorsi, il ministro dello sport Andrea Abodi aveva parlato della volontà del Governo di nominare un commissario straordinario, con i sindaci come subcommissari, con l’obiettivo di accelerare e snellire l’iter burocratico, riconoscendo agli impianti sportivi lo status di infrastrutture strategiche nazionali. «È vero che è sempre una sconfitta quando si ricorre ad un commissario, ma in questo momento, per l’urgenza che abbiamo, mi sembra l’unica soluzione possibile», commenta Bellinazzo. Anche perché, all’orizzonte, c’è Euro 2032, che si giocherà tra Italia e Turchia: entro ottobre 2026, la FIGC dovrà presentare alla UEFA un progetto per la realizzazione o la sistemazione dei cinque impianti che saranno coinvolti nella competizione.
Tra le città ospitanti ci saranno sicuramente Milano, Torino e Roma, le altre candidate sono Napoli, Firenze, Bologna, Genova, Verona, Cagliari e Bari. «Il calcio italiano», dice Bellinazzo, «si trova di fronte a una finestra di un paio d’anni in cui andranno fatti tutta una serie di interventi: bisogna correre, perché è una finestra temporale che potrebbe consentire di seminare quei progetti che poi potrebbero portarci nell’arco di un quinquennio a metterci in scia non dico della Premier League, che viaggia ad una velocità cheper noi al momento è impensabile, ma di Bundesliga e Liga certamente sì».
Bellinazzo, però, conclude con uno spiraglio di ottimismo: «Dopo la pandemia, tuttavia, il calcio italiano – o almeno quello di vertice – ha dimostrato una capacità di resilienza straordinaria. Si è dovuto ingegnare, e tutta una serie di club hanno avviato un consistente processo di risanamento». È ormai evidente che, in quest’ottica, lo stadio rappresenta un asset fondamentale per una società che aspira ad una crescita su scala globale. E, paradossalmente, proprio per i ritardi accumulati sulle strutture e per il fatto che, nel frattempo, gli altri top club internazionali hanno già realizzato nuovi impianti, potremmo ritrovarci in prospettiva con il parco stadi migliore d’Europa per i successivi vent’anni. Dobbiamo muoverci ora per sfruttare questa sorta di rimbalzo rispetto alla situazione di ritardo che stiamo vivendo: abbiamo un’ultima, grande opportunità di trasformare una situazione di svantaggio in un enorme vantaggio».