Sarà un cerchio che si chiude. «La festa giusta per salutare questa bella carriera, nella mia seconda casa: vi aspetto tutti il 22 marzo all’Artemio Franchi». Stesso stadio e stesse porte, qui si possono acquistare i biglietti. «Così intensi, quei tre anni a Firenze. Tanti momenti felici, qualcuno brutto». Ma uno sopra ogni altro, capace di profanare le gerarchie della Serie A. Non fu illusione, ma puro incanto: per un attimo – 20 ottobre 2013 – l’intero calcio italiano è stato ai piedi di Giuseppe Rossi. «Una domenica che rimarrà nella storia, quel 4-2 in rimonta contro la Juve. Arrembaggio capolavoro». Rossi, Rossi, Rossi. Tre volte come non si sentiva da Spagna ’82. «Eppure i paragoni non mi hanno mai messo pressione», racconta l’ex attaccante, intervistato da Undici. «Ho vissuto fuori dall’Italia, libero di far correre il mio nome senza affiancarlo a nessun altro. Anche in Nazionale. Mi guardo alle spalle e ne vado fiero. Di quel che ho realizzato, delle emozioni regalate alla gente, di come mi sono comportato. Ciò che era in mio potere, l’ho controllato. Poi purtroppo ci sono anche cose più grandi di noi. E quelle cose succedono». Ad alcuni più di altri. «Ho subito otto interventi alle ginocchia: sono tanti. Ma il mio modo di affrontarli, recuperare e andare avanti fa parte di me almeno quanto i miei gol. Nella vita ogni ostacolo aiuta a crescere. È così che si trova la serenità».
Pensando a Giuseppe Rossi è facile cadere nella trappola del periodo ipotetico: che giocatore sarebbe stato se, dove sarebbe arrivato senza infortuni, quanti altri gol avrebbe segnato (150 su neanche 400 partite in carriera, comunque, restano un numerone). Cancellare tutto: «Il giorno dopo uno stop pesante», racconta, «ci stai male, ti fai tante domande. Una su tutte: perché a me? Si rischia di assumere un ruolo da vittima: non ho mai voluto abbandonarmi a questa mentalità, né essere compatito. Porterebbe a un blocco psicologico ancora più difficile da superare di quello fisico». Pepito è un campione tra mille altri ragazzi che, per colpa di un crociato rotto, non hanno mai avuto modo di affacciarsi per davvero al mondo del calcio. «L’importante è essere costanti, sapersi svagare insieme alle persone giuste. E tenere sempre il sogno vivo: dopo tutti i sacrifici per arrivare lassù, tra me e miei genitori, non potevo mollare sul più bello».
Rossi si è sempre rialzato, talento più perseveranza. «Nessun rammarico». E nemmeno fatalismo: «Vorrei rivivere ancora la sensazione stupenda della maglia azzurra: trenta volte non si dimenticano. Lì ogni giocata vale triplo, dà speranza a un paese verso un Mondiale o un Europeo. Ho fatto partite di qualificazione, ma non sono mai riuscito a partecipare a un grande torneo. Gli infortuni capitavano sempre in quei periodi lì». Poi aggiunge, con la voce di un bambino: «Cavolo, sarebbe stato molto bello giocarli».
Il cammino ha riservato altro. «E quanto mi sono divertito», sorride Rossi, oggi 38enne. Fuori un po’ di highlights: «A 12 anni arrivai alle giovanili del Parma, totalmente diverse da quanto avevo vissuto in America. Andare a vedere le partite della prima squadra mi dava la carica: c’erano Crespo, Buffon, Verón». Mostri sacri. «L’obiettivo era arrivare a far parte di quel mondo. A 16 anni ho iniziato ad allenarmi con loro: presto capii che avrei potuto farcela. A 17 un dirigente gialloblù viene da me: “Guarda, ti do una spilla del club che ti cerca”. Era quella dei Red Devils. Corro in macchina da papà e gli dico che il Manchester United vuole parlare con noi. Non ci potevamo credere». Eppure è successo.
«Da lì in poi è iniziato tutto», ricorda Rossi. «Inghilterra, Spagna, Italia. Mi sento un po’ cittadino del mondo: è una fortuna aver vissuto tanti campionati e Paesi, con le loro culture e modi di fare calcio». Il periodo più felice? «Quell’autunno fiorentino: i tifosi piangevano di gioia quando vedevano me e i miei compagni dopo il poker alla Juve, figlio della caparbietà. E un’altra stagione d’oro al Villarreal: eravamo un bel gruppo, si usciva a cena, risate in serie». Pura vida. «Non solo. Gol, giocate, vittorie: ho dato tutto e tutto mi riusciva. Potevo non toccare palla per 90 minuti, al 91’ risolvevo la partita. In entrambe quelle annate ero libero di testa, mi sentivo intoccabile: è una condizione rara, molto difficile da raggiungere e mantenere, ma una volta che ce l’hai non vuoi mai che finisca». È l’intensità a fare la qualità del tempo. «Allora la mia carriera è stata ancora più lunga».
Fiorentina-Juventus 4-2
Soltanto una volta Pepito ha pianto al triplice fischio. Olimpiadi di Pechino, quarti di finale persi contro il Belgio, in undici contro dieci. «Ci tenevo tanto a vincere una medaglia: i Giochi sono l’immagine dello sport, una delle esperienze più intense che si possono provare. E poi avevamo una squadra fortissima, ce la saremmo giocata anche contro Messi e Ronaldinho. Purtroppo ci siamo buttati via prima». Rossi ha sempre preteso tanto da sé stesso. «Certo. Sono uno che se la gioca fino alla fine davanti a chiunque. Mai e poi mai voglio ammettere che qualcuno è più forte di me». Soltanto una volta Pepito ha dovuto farlo. «Quando vedi un tuo coetaneo giocare in un modo simile al tuo, proprio nel tuo periodo di massima forma, eppure riesce a farlo meglio di te sotto ogni aspetto: beh, quello è il momento di alzare le mani e applaudire». Inutile dire chi. “Ogni volta che lo affrontavo da avversario, Leo Messi sfoggiava cose di un altro livello. Mi spronavo, mi davo ancora più da fare, ma come Messi non ci si arriva. E pensare che ero andato a un passo dal suo Barcellona». Porte girevoli di calciomercato. «Già. Sarebbe stato divertente scendere in campo con lui». Un altro what if a cuor leggero.
Resta ancora una leggendaria partita da giocare, a quasi due anni dall’ultima gara ufficiale. «Non vedo l’ora», scatta il conto alla rovescia per il Pepito Day. «Durante il mio percorso ho avuto il privilegio di trovare tanti fuoriclasse e grandi allenatori. Oggi ciascuno di loro mi ha sorpreso: un giorno di marzo che potevano trascorrere tranquillamente in famiglia, hanno scelto di venire a Firenze per me». Da Toldo a Batistuta, da Cassano a Borja Valero, passando per Toni, Joaquín e perfino Sir Alex Ferguson. Alla faccia del Dream Team. «La stima dei colleghi, anche dopo il ritiro, vale più di qualunque titolo. È il posto giusto, il momento giusto, da condividere col popolo viola e chiunque altro vorrà». Parli con Rossi e percepisci un uomo entusiasta: «Mi godo la famiglia, faccio il papà e il marito a tempo pieno» nel natio New Jersey. «Intanto continuo a divertirmi: alleno i ragazzi nell’Academy che ho fondato qui negli Stati Uniti, cercando di capire il diverso approccio americano e portare avanti il mio. Insegnare dà le sue soddisfazioni. A stare lontano dal calcio proprio non riesco». Delle volte è per sempre, come un sinistro improvviso sotto la Fiesole.
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