Al minuto 72′ della partita contro il Napoli, col risultato fermo sull’1-1, l’allenatore del Como Cesc Fàbregas ha deciso di effettuare un cambio: dentro l’attaccante Patrick Cutrone e fuori Maxime Caqueret, un centrocampista. Con questa sostituzione, la prima della sua partita, il tecnico spagnolo – che secondo gli almanacchi ha iniziato quest’anno la sua carriera in panchina, visto che l’anno scorso non aveva l’abilitazione e quindi il Como gli “affiancò” il gallese Osian Roberts – è passato dal 4-3-3 con Nico Paz nel ruolo di falso nueve al 4-2-3-1 puro, facendo scalare proprio Paz nel ruolo di trequartista. Alla fine il Como ha vinto la partita per 2-1, il gol decisivo l’ha segnato Diao cinque minuti dopo l’ingresso di Cutrone. E l’assist decisivo l’ha servito proprio Nico Paz. Il punto, però, sta nel senso di tutto questo discorso sul cambio Cutrone-Caqueret: il Como, squadra neopromossa in Serie A a 21 anni dal suo ultimo campionato di massima divisione, affrontava la capolista e stava ottenendo un buonissimo pareggio. Questo pareggio però a Fàbregas non bastava, tanto che ha inserito un attaccante per cercare di vincere la partita. Alla fine l’ha vinta, ma se avesse pareggiato o addirittura perso – è già successo in diverse altre gare di questa stagione – non sarebbe cambiato niente. Per Fàbregas il Como è questo, deve essere questo. Prendere o lasciare.
Certo, ci sarebbero tante cose da dire e tanti distinguo da fare. Numero uno: il Napoli di oggi è una squadra lontanissima da quella che solo un mese fa chiudeva un ciclo entusiasmante di sette vittorie consecutive. Numero due: il Como è un club unico nel suo genere, la sua dimensione tecnica e storica è lontanissima dallo strapotere finanziario che la proprietà indonesiana potrebbe esercitare su tutto il calcio italiano, quindi di fatto è una squadra che può permettersi di condurre un mercato a dir poco aggressivo, di prendere Caqueret, Alex Valle e Diao sei mesi dopo aver preso Nico Paz, Sergi Roberto, Maxi Perrone. Numero tre: il Como ha questa ossatura e sette punti di margine sulla zona-salvezza, diciamo che virtualmente aveva e ha tutto ciò che occorre per giocare con la mente sgombra, manifestando ambizione tattica e tecnica, fino quasi a sfociare nell’incoscienza.
Il fatto, però, è che l’intera stagione del Como è stata vissuta e indirizzata in questo modo. In tutte le partite, anche quando la sua squadra era in zona-retrocessione o comunque pochi punti più su rispetto al terzultimo posto, Cesc Fàbregas ha sempre pensato e agito in funzione di certi principi. Ha inserito attaccanti, ha sperimentato formule audaci e meccanismi sofisticati, non ha mai rinunciato a un certo approccio. A un certo stile. Al possesso palla intensivo ma anche teso a una certa verticalità, all’aggressività estrema in fase difensiva, alle rotazioni tra mezzali e centrocampisti.
Tornando alla partita contro il Napoli, tanto per dire, Fàbregas ha schierato la difesa a quattro e poi Perrone, Caqueret, Da Cunha, Strefezza, Diao e Nico Paz, tutti dal primo minuto. Vale a dire: due mezzali creative (Perrone e Caqueret), un ex esterno di qualità trasformato in centrocampista (Da Cunha), un laterale offensivo puro (Strefezza) e due dei talenti offensivi più brillanti dell’intera Serie A. Poi, come detto, è subentrato un centravanti di ruolo al posto di un centrocampista. Infine, giusto per rimanere coerenti, dopo il gol del 2-1 Fàbregas ha dato spazio ad altri tre giocatori offensivi (Fadera, Vojvoda e Douvikas) e a Engelhardt: un centrocampista appena più contenitivo rispetto a Da Cunha.
È chiaro, ma è opportuno ripeterlo: Fàbregas parte da una condizione estremamente favorevole, il Como è un club che a gennaio ha potuto permettersi di rivoltare la rosa come un calzino, di avvicinare e convincere giocatori che le altre squadre in lotta per la salvezza non possono neanche mettere tra gli obiettivi di mercato. Lo stesso tecnico spagnolo, poi, ha un’aura nettamente superiore a quella della sua stessa società, quindi può concedersi comportamenti e dichiarazioni un po’ provocatorie – dopo aver perso contro il Milan ha detto che «durante la partita sembrava che il Milan fosse la squadra biancoblu». Anzi, la sua presenza e certe uscite servono proprio a dare ulteriore credibilità al progetto-Como.
La realtà delle ultime settimane, però, dice che dietro questa vetrina luccicante c’è un negozio-azienda che lavora benissimo. Che ha fatto molte scelte corrette. Che ha un’identità chiara, non negoziabile, di cui Fàbregas non è solo garante o testimonial: il Como fa un gran calcio perché ha dei giocatori di talento, naturalmente, ma anche perché ha un allenatore che sa intuire e incastrare quel talento. Perché non manifesta alcun tipo di timore reverenziale, perché scende in campo per fare determinate cose e prova a farle fino in fondo. Anche se a volte è una scelta che dà l’impressione di essere esagerata, presuntuosa, o comunque ben oltre il limite del rischio.
Insomma, diciamolo brutalmente: per fare operazioni indovinate come quelle relative a Nico Paz e Diao servono molti soldi, per pensare di prenderli e di affiancargli Caqueret serve essere il Como. Allo stesso tempo, però, il Como funziona perché non si limita ad acquistare certi giocatori e a metterli nella squadra affidata a Cesc Fàbregas, allenatore dal nome cool e dal passato importante: Fàbregas è un tecnico vero, già formato per certi livelli, con idee brillanti e ambiziose che permettono di valorizzare il talento a disposizione. E allora questi giocatori sono nel posto giusto per crescere, per migliorare, per approdare al livello successivo e trascinare anche lo stesso Como in una nuova dimensione. È quello che serve a una società del genere per continuare il suo percorso di sviluppo, per imporsi come brand in grado di esercitare una grande attrazione. Fuori dal campo, e questa non è una novità, ma anche dentro il campo. Non era un passaggio scontato dopo la promozione e le prime partite in Serie A, eppure sta avvenendo davanti ai nostri occhi. In modo naturale, divertente e quindi davvero promettente per il futuro.