Il fallimento del MIlan in Champions ha molte facce

L'espulsione di Theo Hernández è un tema, ma lo è anche il rendimento di tutti gli altri leader rossoneri. Così come lo sono le scelte di Conceição e della società.

Per i calciatori, quelli del passato ma soprattutto quelli contemporanei, il concetto di leadership è molto vasto. Nel senso: per essere un leader ci vogliono le qualità tecniche, naturalmente, ma serve anche altro. Occorre, per esempio, saper leggere e gestire le situazioni e le partite, è necessaria una certa carica emotiva, bisogna sapersi caricare i compagni nei momenti buoni e in quelli negativi. Da questo punto di vista, l’andamento di Milan-Feyenoord 1-1 ha restituito, per l’ennesima volta, dei segnali piuttosto eloquenti: chi è stato scelto – o comunque si è posto – come leader della squadra rossonera, per dirla in breve, spesso non è all’altezza di questo ruolo. Non perché non abbia ciò che serve, almeno in potenza, ma perché il suo contributo viene a mancare proprio nei momenti in cui ce ne sarebbe più bisogno: i momenti difficili. Ecco, leggendo queste parole il pensiero corre immediatamente all’espulsione di Theo Hernández, a due ammonizioni molto stupide che, di fatto, hanno vanificato il buon inizio del Milan e quindi la qualificazione agli ottavi. Ma il discorso sulla leadership, come dire, va oltre il terzino francese. Riguarda anche Rafa Leão, riguarda anche Mike Maignan e tutti gli altri giocatori di punta della squadra di Conceição.

Ora, se guardiamo solo a Milan-Feyenoord è chiaro che Maignan e Leão abbiano molte meno responsabilità rispetto a Theo Hernández. E che sia ingiusto puntare il dito, tanto per fare qualche altro nome, su Reijnders – il miglior giocatore in questa stagione del Milan, pure per distacco – o su Pulisic, sui nuovi arrivati Giménez, João Félix, Walker. Il punto, però, è che i nuovi arrivati sono i nuovi arrivati, ci siamo, e allora è inevitabile pretendere qualcosa di più dal gruppo storico. Da chi c’era ai tempi dello scudetto di Pioli, dagli uomini su cui è stato fattivamente progettato il Milan. Dai calciatori che la società ha individuato come base per avviare un nuovo ciclo.

Ovviamente certe scelte sono state fatte perché dentro il Milan hanno tenuto conto di certe evidenze e di certe sensazioni, c’era una ragionevole certezza del fatto che Maignan, Theo e Leão fossero degli ottimi calciatori e anche delle persone in grado di trascinare una squadra importante e ambiziosa. In questo senso, tanto per dire, lo scudetto del 2022 è una testimonianza abbastanza significativa: a quel tempo, furono proprio Maignan, Theo e Leão a inclinare l’esito del duello con l’Inter, quindi del campionato. Da allora, però, sono successe tantissime cose. E in occasione di tutti gli eventi, più o meno, sono venuti fuori dei dubbi su Maignan, Theo e Leão. Non sul loro impegno o sulle loro doti, ci mancherebbe altro, ma sul loro spessore nel momento in cui le cose si fanno difficili. Non c’è bisogno di (ri)fare ancora l’elenco di tutto ciò che è avvenuto, ma basta ricordare e pensare che lo stesso Pioli, poi Fonseca e poi Conceição hanno espresso delle perplessità su questi giocatori. A volte, anche con scelte e dichiarazioni forti, plateali.

Da qui si arriva facilmente a parlare del Milan-società. Delle persone che costruiscono la squadra, che scelgono l’allenatore, che lo tengono e/o lo esonerano, che hanno imposto – o si sono fatti andar bene, il senso non cambia – certi giocatori come leader dello spogliatoio. Come uomini-copertina del progetto. È evidente che il Milan, dopo lo scudetto 2022 e la semifinale di Champions 2023, sia sostanzialmente imploso su se stesso. In questi anni sono stati fatti grandi cambiamenti, prima nella rosa e poi in panchina, e molti di questi non hanno funzionato. Certo, l’operazione-Pulisic ha reso sicuramente meglio di quella relativa a Morata, così come è ingiusto mettere nello stesso calderone l’acquisto di Reijnders con quelli di Musah e/o di Chukwueze. La distanza tra l’esito di tutti questi cambiamenti, però, restituisce un senso di improvvisazione. Come se il Milan procedesse a tentativi, e non seguendo una direttrice chiara e coerente.

Anche la nomina di Sergio Conceição, a pensarci bene, è stata un passaggio fin troppo trasformativo, che ha finito per sconfessare tutto quello che era stato fatto in precedenza. Al di là dei discorsi – vacui, retorici – sul suo atteggiamento e sul ritrovato ordine dentro lo spogliatoio, la verità è che il tecnico portoghese non ha nulla in comune col suo predecessore. Potrebbe anche essere un buon segnale, nel senso che Ibrahimovic e il resto dello staff si sono resi conto che Fonseca fosse inadeguato alla sua stessa rosa e che serviva qualcosa di diverso, un tecnico dal gioco più diretto, più aggressivo. A due mesi e mezzo dal cambio in panchina, però, il Milan continua a essere una squadra ricca di contraddizioni, che raramente domina gli avversari, che ha una buona forza emotiva – le rimonte in Supercoppa, le partite vinte nei secondi tempi contro squadre di livello più basso – ma che può anche sgretolarsi facilmente alle prime difficoltà. In questo senso, si può dire, è come se la cura-Conceição avesse avuto un impatto reale solo all’inizio. Poi il Milan ha ricominciato a essere intermittente.

E allora forse le fragilità rossonere sono strutturali, riguardano le fondamenta – intese come pensiero-guida, ma anche come persone – del progetto. Al Milan è come se ogni scelta e ogni carica/figura fossero friabili, tranne quelle più importanti: Ibrahimovic e Moncada, i giocatori da cui partire per allestire il resto della squadra. Negli ultimi due anni gli allenatori, le loro idee, il mercato e i risultati sono venuti dopo questo gruppo di lavoro, ma il Milan ha raccolto giusto una Supercoppa Italiana. E ora deve fare i conti con un’eliminazione dolorosissima perché prematura, perché arrivata contro una squadra decisamente meno forte rispetto a quella di Conceição, per altro dopo aver buttato via il match point per gli ottavi in casa della Dinamo Zagabria. In queste condizioni, è difficile non parlare di fallimento. Un fallimento che ha tante facce, ma più o meno sempre le stesse.