Santiago Castro ha le stimmate del grande attaccante

Il centravanti del Bologna somiglia a tante icone argentine del passato, e questo lo rende un giocatore unico.

L’ultimo messaggio è un colpo di tacco a spalancare la via. Pobega ringrazia, lo Stadium si ammutolisce, Thiago Motta – fresco di espulsione – vede scorrere il passato prossimo davanti a sé. Quando era lui ad allenare Santiago Castro, a lanciarlo in Serie A – con tanto di primo centro, proprio contro la Juventus. Oggi l’argentino è un attaccante nuovo. Sorprendente, protagonista, potenzialmente decisivo in ogni partita del Bologna. Doveva essere il vice di Thijs Dallinga, grande colpo del calciomercato rossoblù ancora a secco di gol. «Ma se Santi segna in quella maniera», diceva Vincenzo Italiano già a settembre, dopo la cannonata del suo pupillo contro il Monza, «vuol dire che ha qualcosa in più rispetto ai suoi coetanei». E non solo. Il ragazzo ha appena vent’anni, eppure si tende a dimenticarlo. Questione di estro, baricentro basso, reti gonfiate a bruciapelo. È soltanto l’inizio. Nessuno però vuole perdere tempo: lui si è subito tatuato la torre del Dall’Ara sul polpaccio, i tifosi le sue giocate nella memoria.

Il campionato non se l’aspettava, un calciatore come Castro. Ennesimo animale d’area della rinomata tradizione argentino: ibrido fra tanti e uguale a nessuno. Per parabola – gli auguriamo un finale diverso – ricorda un po’ Mauro Zárate: anche lui scuola Vélez, sbarca giovane in Serie A e se la prende subito. Il Bologna come la Lazio. Ma Santi è meno fantasioso. Più efficace. Per lineamenti e taglio di capelli ha un che del Tucu Correa. Santi però non sprinta sulla fascia: vuole il centro dell’azione. Per il resto sfoggia tutto il repertorio del goleador tracagnotto e indemoniato che da Carlitos Tévez, passando per il Kun Agüero, si evolve fino a Lautaro Martínez: gran tocco di palla, primo passo bruciante, esplosività combinata a tecnica sopraffina. Castro, e ci mancherebbe, è ancora lontano da tutti loro. Ma è anche più fisico: fluttua sulla soglia dell’identikit sopracitato, col suo metro e 79, nel limbo teorico tra la prima punta di genio e quella di sfondamento. In Argentina, poi, il soprannome calcistico non mente mai. Più Castro segna e più diventa Torito – un paragone, quello col capitano dell’Inter, che il rossoblù ha ammesso di cominciare a soffrire. In origine però lo chiamavano King Kong o locomotora: potenza d’altro livello, non gliene voglia il Toro.

C’è già tutto questo, nei suoi gol e nei suoi guizzi fulminei. In quel settembre decantato da Italiano, Castro ha attirato gli occhi della Serie A negli ultimi sedici metri. Ma per due volte in una settimana – attitudine sempre più rara, nel calcio moderno – ha segnato da fuori: il missile terra-aria a spezzare il Monza, un destro sul palo lontano a spaventare l’Atalanta. Soprattutto il secondo, per movenze e preparazione, non può che rievocare i colpi del miglior Lautaro. Non è un caso. Anche in casa del Napoli, partita e azione più sfortunata, il modo in cui rompe le catene tra Anguissa e Rrahmani per poi calciare sembra un fac-simile del nerazzurro.

Stesse immagini durante il precampionato. «Lautaro per me è un idolo, un giocatore da emulare», ha spiegato Castro a Sportweek. «E così Tévez, Agüero. Ma alla fine io sono Santiago e voglio essere Santiago sempre». Riconosce le analogie, «il sacrificarsi tanto per i compagni, dare tutto dall’inizio alla fine del match, trovarsi pronto al primo pallone che transita in area e vivere per il gol». Rivendica la sua unicità in campo: saper improvvisare quando è sotto pressione, aggredire come un mediano quando lo sono gli altri. Perfino l’essere un trash talker. «È una sfida mentale, dipende dal momento della partita. Parlo, provoco, rido». Anche la testa conta.

Ed è questo forse l’aspetto che più di tutti sbalordisce di Castro, alla sua età. Per niente impaurito dalla concorrenza interna. Per niente appagato dai risultati. Per niente inebriato dai riflettori. Il suo allenatore continua a dire che «deve crescere, tenere i piedi per terra, seguire i miei consigli e quelli dei compagni più esperti». Minutaggio alla mano – titolare in 16 partite su 20 dall’inizio di questa stagione – Santi ci sta riuscendo: perfino più coriaceo del proverbiale turnover di Italiano. Ormai per il Bologna è imprescindibile. Fa salire la squadra, recupera palloni (o prende falli), detta i tempi dell’azione. Anche in una calma serata di Coppa Italia, l’occasione perfetta per rifiatare. Invece – complice il forfait di Dallinga, pure sfortunato – Castro finisce per giocare altri 90 minuti. Di nuovo il malcapitato Monza sulla sua strada: un gol, tre assist, playmaking e ripartenze brucianti. Pandemonio con il numero 9. Quattro giorni dopo apre in due la difesa della Juve. Senza nemmeno bisogno di girarsi: sa, tocca, esulta. La prossima, chissà.

A Monza hanno affisso le foto segnaletiche di Santi Castro

Fanno bene Italiano e il Bologna a volare basso, a tutelarlo: tre mesi di exploit rischiano di non essere nulla nella carriera di un calciatore. Conterà la costanza, la voglia di riconferma, l’asticella che si alzerà sempre di più – soprattutto la media-gol, non ancora da finalizzatore seriale. Le premesse però ci sono tutte. Con buon pragmatismo, Castro dice che «per ora la Nazionale resta un sogno». Dice inoltre che “fra cinque anni mi vedo in Champions League con la maglia del Bologna”. Il futuro è già qui. Come l’inchiostro sulla pelle, come un pallone sotto l’incrocio.