Il primo ricordo nitido che abbiamo di Francisco Conceição figlio di Sergio è ovviamente il gol, il primo nel campionato dei grandi con la maglia del Porto, realizzato l’8 gennaio 2022 contro l’Estoril. Una rete festeggiata con un abbraccio con il padre allenatore e che si è trasformata immediatamente un’istantanea capace di fare il giro del mondo e dei social, ritagliandosi uno spazio anche sulle testate generaliste. Pochi mesi dopo, a inizio maggio, il Porto avrebbe conquistato il titolo nazionale andando a vincere 1-0 in casa del Benfica. E così quel gol e quell’abbraccio sono diventati l’ideale copertina di un successo non banale, il 30esimo in campionato per i Dragões.
Forse è quello il giorno in cui Sergio Conceição ha capito che Francisco sarebbe diventato un calciatore vero. O, forse, lo aveva capito molto prima e prima di chiunque altro, tanto da assumersi in prima persona la responsabilità di lanciarlo tra i professionisti. Fatto sta che, ogni volta che parla di suo figlio Francisco detto “Chico”, Sergio Conceiçao presta sempre molto attenzione ai toni e ai termini che utilizza, pesa ogni singola parola che esce dalla sua bocca. Un comportamento che probabilmente accomuna tutti gli allenatori che, a un certo punto della propria carriera, si sono trovati a dover allenare i propri figli. E hanno dovuto dimostrare che l’imparzialità e l’intransigenza richiesta dal loro ruolo non sarebbe stata intaccata in alcun modo dalla sfera emotiva ed affettiva.
«Francisco è un attaccante che fa parte della rosa del Porto», ha detto un giorno Sergio Conceição, «ed è sempre importante che gli attaccanti riescano a segnare. Come allenatore sono contento della sua prestazione così come lo sono della prestazione di tutto il resto della squadra. A casa e in famiglia, come padre, posso anche permettermi di piangere e commuovermi ma nel resto del tempo Francisco è uguale a tutti gli altri giocatori». Queste parole risalgono al il 20 novembre 2021, giorno in cui “Chico” segnò (su rigore) il primo gol in assoluto della sua carriera nel quarto turno di Coppa del Portogallo contro il Feirense. Più recentemente, in occasione dell’ultima cerimonia del premio Golden Boy a Roma l’ex tecnico del Porto ha voluto ricordare come nell’ultima stagione Francisco abbia giocato con continuità soltanto quando ha capito «come muoversi all’interno di un’ organizzazione di squadra. Conoscevo già la sua tecnica, la sua velocità e la sua capacità di saltare l’uomo. Ma per diventare un giocatore completo doveva inserire anche il resto».
Questa necessità di completarsi, di diventare un calciatore migliore di quanto già non fosse agli esordi, è ciò che ha portato Francisco Conceição a trasferirsi all’Ajax dopo una stagione vissuta comunque da protagonista (33 partite, ma solo quattro da titolare, tre gol e quattro assist) in un Porto capace di realizzare l’accoppiata campionato-coppa nazionale. E che, nemmeno 24 mesi dopo, gli ha fatto prendere il primo volo in direzione Torino su consiglio del padre: «Perché la Juventus è uno dei più grandi club al mondo», ha detto Sergio, «e perché sapevo che, se fosse riuscito a prendere il controllo della situazione, sarebbe riuscito a fare la differenza». Prendere il controllo – della situazione, ma anche del pallone e della partita – è un’espressione, anzi un’idea, che viene difficile associare ad un giocatore che sembra sempre andare troppo veloce rispetto al naturale corso degli eventi. Eppure è esattamente quello che accade tutte le volte che l’azione passa dalle sue parti: nel gol del 3-2 contro il Lipsia, Conceição riceve praticamente da fermo, trotterella pigramente verso l’esterno per attirare il raddoppio e lo spezza con una specie di elastico alla rovescia che gli permette di calciare praticamente dall’interno dell’area piccola senza dover toccare il pallone una seconda volta; nell’assist per la rete di Weah contro l’Inter, Mkhitaryan dà l’impressione di sapere che il numero 7 bianconero alla fine andrà da quella parte, ciononostante il cambio di direzione palla al piede è talmente brutale e repentino da far sembrare che l’armeno si muova al rallentatore; contro il Cagliari, nell’azione che porta alla sua espulsione per somma di ammonizioni, Conceição accelera due volte nello spazio di pochi secondi – sullo scatto per chiamare il lancio in profondità di Danilo, poi sul controllo a seguire – come se fosse un’auto da corsa che passa dalla terza alla quarta mentre il pilota alla guida sta già pensando a come e quando innestare la quinta. Ecco, questa è l’interpretazione del concetto di prendere il controllo da parte di Francisco Conceiçao: cambiare a piacimento il ritmo della partita. In modo che, a risultare fuori controllo e fuori tempo, siano gli altri, gli avversari che non riescono a stargli dietro quando aumenta la frequenza dei passi e degli appoggi – quindi, approssimativamente, l’80% dei terzini e degli esterni bassi in Italia e in Europa.
Qualche giorno fa su Tuttosport è stato pubblicato questo articolo in cui si evidenzia la natura diretta, quasi ancestrale, del gioco di Conceiçao, uno degli ultimi esterni puri in circolazione, un caciatore che vive e interpreta la partita sull’onda di una sfida continua al primato della tattica sulla tecnica pura e all’avversario da dribblare il più rapidamente possibile per poi puntare verso la porta. Pure questo potrebbe sembrare un controsenso nella stagione in cui la Juventus sta implementando un sistema dalle sovrastrutture più complesse rispetto al recente passato, eppure il portoghese funziona anche in un contesto del genere, orientato al controllo del possesso e alla gestione del pallone finalizzata all’organizzazione delle due fasi. Funziona non solo perché, nelle ultime settimane, la squadra sta vivendo una prima, fisiologica, crisi di rigetto delle teorie di Thiago Motta: «Il mister mi ha detto di fare il mio gioco, quello che so fare, quello che mi riesce meglio, lasciandomi molta libertà e molto spazio, a me ma anche a tutti gli altri miei compagni» ha detto Francisco dopo la partita di Lipsia. Aggiungendo però una postilla sul bisogno di bilanciare tutta questa autonomia con un maggiore impegno nella metà campo difensiva.
Si tratta di un dettaglio significativo, che svela quale sia l’idea di razionalizzazione del talento di Thiago Motta, che poi combacia perfettamente con quella necessità di diventare un giocatore migliore e più completo di cui si diceva all’inizio di questo pezzo, il vero filo rosso che tiene uniti i pezzi del puzzle della prima parte di carriera di Chico Conceição. Un giocatore così peculiare non è e non sarà mai un’ala tattica come Nico González o Timothy Weah, quindi il focus del lavoro individuale va spostato sulla partecipazione alla fase di non possesso, in modo da non dover fare delle scelte di formazione in base al rapporto costi/benefici sull’equilibrio di squadra.

Da questo punto di vista l’impatto di Conceiçao è stato per certi versi ancora più importante e sorprendente rispetto a quello cristallizzato nei numeri offensivi – tre gol, due assist, due dribbling riusciti sugli oltre tre tentati di media a partita in 495′ di impiego tra campionato e Champions League. Così anche Motta ha potuto apprezzare la qualità delle sue corse in ripiegamento, l’energia dei suoi contrasti, la sua predisposizione al sacrificio che lo porta a non togliere mai il piede nemmeno nelle situazioni più rischiose: «Francisco ha fatto molto bene sia in difesa che in attacco. In una partita del genere potevamo rischiare di restare scoperti sulle transizioni degli avversari ma lui è stato molto attento. Ha un atteggiamento eccezionale che contagia tutto il gruppo, è qualcosa che ha nel sangue: è un piacere allenare giocatori così» ha dichiarato il tecnico dopo il 4-4 di San Siro, la prima partita della stagione in cui Conceiçao non è stato sostituito, eppure fino alla fine ha dato l’impressione di averne ancora per un altro scatto, un altro dribbling, un’altra corsa all’indietro in aiuto di Cambiaso.
Quello che accade nella trequarti offensiva è invece la parte più semplice da raccontare, perché semplice – cioè attraverso giocate non scomponibili – è il modo stesso in cui Conceiçao approccia e interpreta il ruolo di esterno offensivo, assecondando l’istinto primario che lo porta a vedere nel dribbling l’unica soluzione a qualsiasi problema gli venga posto dalla difesa avversaria. In questo senso Thiago Motta ha deciso, per ora, di assecondare questa sua natura di facilitatore nello sviluppo del gioco e della progressione dell’azione, tanto più in un momento in cui la ricerca dell’ampiezza da parte della Juve finisce spesso con l’esitare in uno sterile crossing game verso l’area di rigore; avere a disposizione un elemento in grado di improvvisare e di uscire da quegli schemi che per la squadra di Motta sembrano rappresentare ancora un vincolo, più che una certezza alla quale affidarsi, costituisce un salvagente a cui il tecnico italo-brasiliano si è aggrappato volentieri nell’attesa di consolidare i suoi principi.
Non è difficile, tuttavia, immaginare che questo sia solo il punto di partenza di un percorso di formazione più ampio che dovrà portare Conceição a trasformarsi in un giocatore che riesca ad essere decisivo anche in altri modi, cambiando la qualità e la continuità delle interazioni con i compagni ed esplorando – per poi provare a superarli – ulteriormente i suoi limiti tecnici e fisici. In fondo è questo che lo ha portato fino a qui, senza che si facesse più caso al cognome che porta. Un cognome che pesa, sì, ma non più di tanto.