Rodri, un calciatore normale

Zero social, una laurea, carattere schivo e concentrato sul calcio: l’antidivo per eccellenza ha vinto il premio da celebrity per eccellenza.

Il problema non è tanto la scalinata con le stampelle. Ma quei due microfoni sul palco subito dopo, che Rodrigo Hernández Cascante aggiusta con la tenera goffaggine di un bambino, tra una carezza e l’altra al Pallone d’Oro. Li guarda e li tocca: una, due, tre, dieci volte. Per tutta la durata del suo discorso. E in effetti a parlare è un bambino, dice Rodri, «un bambino normale che attraverso i princìpi, lo studio, il rifiuto degli stereotipi di questo sport è riuscito a raggiungere le sue vette più alte». Fino all’Olimpo nella notte parigina. È teso, il giocatore più invidiato del momento. Passi per lo smoking. Passi pure per lo sfarzo del teatro: i premi vanno ritirati. Eppure quei fili elettro-acustici, così familiari nella carriera di un professionista, ad un tratto si fanno zampe di ragno. Fastidiose, ansiose di voce. ‘Mi sentiranno, dalla platea?’, sembra crucciarsi lui. Soltanto quando dichiara di «voler parlare nella lingua del mio paese» si scioglie, respira e fa un sorriso. Perché «questo è un riconoscimento per la Spagna. Per tutti quelli che l’avrebbero meritato prima di me senza riuscirci: Xavi, Iniesta, Busquets». Ed è anche la vittoria del centrocampista difensivo sull’attaccante. Dell’ombra sugli highlights. Del metodo sull’estro. Soltanto in ultimo, per Rodri – dopo aver ringraziato squadre, staff, compagni, allenatori, famiglia, amici, fidanzata, giuria di France Football – venne Rodri.

È defilato perfino il luogo dove iniziò a giocare. Un sintomo della storia che sarebbe stata: Majadahonda, sobborgo di Madrid. Anonimo in tutto, se non fosse per l’illustre citazione nel Don Chisciotte di Cervantes, nel capitolo “dove si racconta l’avventura del pastore innamorato, e altri graziosi avvenimenti”. Quelli che oggi riguardano Rodri sono l’antitesi e al tempo stesso l’adattamento calcistico del grande romanzo. Pure il mediano del Manchester City è a modo suo un folle rispetto al mondo che lo circonda.

Non ha social, è laureato, detesta i riflettori, le apparenze, le goliardate, lo sperpero di denaro. Da piccolo venne scartato per la sua “triste figura”: nel caso del cavaliere fu l’esito di un duello, per Rodri un provino all’Atlético finito male («troppo basso», presero nota gli osservatori dei Colchoneros: e pazienza se il ragazzino vi sarebbe tornato uomo, dall’alto del suo metro e 90, quale armatura di uno straordinario bagaglio tecnico).

Un giorno anche lui arrivò a combattere contro i mulini a vento: aveva 17 anni – lo ha ricordato, commosso, durante la cerimonia del Pallone d’Oro – e lo stress delle giovanili esplose d’un colpo. «Mi dissi basta, è finita, ho buttato tutta la vita per un sogno che sta scappando da me». Soltanto la fiducia di una persona speciale l’avrebbe riportato sulla retta via (che sia il papà o Sancho Panza, poco importa). E in origine il suo Ronzinante – il vecchio cavallo che l’allucinato protagonista prese per un destriero – fu un’Opel Corsa di seconda mano, comprata da una signora per i suoi viaggi attraverso La Mancha, da Madrid a Castellón, ai tempi del Villarreal. I suoi compagni gli consigliarono di cambiarla, almeno per motivi di sicurezza. Lui rispose che «i pazzi sono loro, a spendere e spandere per le auto di lusso: l’importante è che ti porti a destinazione». 

Da quando è arrivato al Manchester City, nel 2019, Rodri ha conquistato 12 trofei: quattro Premier League, una FA Cup, due Coppe di Lega, due Community Shield, una Champions League, una Supercoppa Europea e un Mondiale per Club (Shaun Botterill/Getty Images)

Ed ecco dunque la grande differenza fra letteratura e attualità. A 28 anni Rodri non è mai stato l’illuso o il fantasticatore che fu Don Chisciotte. Ma un puro e semplice realista: è diventato il migliore attraverso l’applicazione. E la perseveranza. Racconta Ilkay Gündogan che lo spagnolo, durante la sua prima stagione al City, «si tratteneva in campo per 30-35 minuti in più ogni giorno. Non per continuare ad allenarsi, ma per parlare: era ossessionato dal confrontarsi, imparare, perfezionarsi». Spiega lo stesso Rodri: «Presto mi resi conto che, arrivando a comprendere il gioco, avrei avuto un vantaggio competitivo, soprattutto all’inizio, quando sono pochi i giovani calciatori propensi all’apprendimento concettuale». Il futuro campione, insomma, ha passato gran parte della sua vita a cercare di capire. Il resto a studiare: è dottore in Economia aziendale e gestione delle imprese, sostiene che «gli anni trascorsi nella residenza universitaria sono stati i migliori» e lì conobbe la sua attuale compagna, dalla facoltà di medicina. Ha scelto di viaggiare per affinare l’inglese. Al più suona la chitarra. Ogni tanto una partita a padel o a golf (videogiochi giammai). Una vita reale, appunto, significa in nessun caso virtuale. «Glielo dico sempre: l’unica cosa che gli manca è il marketing di sé stesso», lo incalza Morata. «Non gioco a calcio per questo», la replica di Rodrigo.

Per Pep Guardiola, ce n’è abbastanza per renderlo l’ultimogenito ideale della sua filosofia. «Rodri non ha tatuaggi, non ha orecchini e porta i capelli ordinati: è proprio come dev’essere un centrocampista. Pensa sempre cos’è meglio per la squadra. Non gioca per le belle prestazioni, ma per rendere la vita migliore ai compagni. Vorrei che di Rodri ce ne fossero almeno due». Gli è bastato l’originale per vincere finalmente tutto alla guida del City. I 70 milioni di euro pagati all’Atlético nel 2019 sono stati l’investimento necessario. Poi solo gloria: quattro Premier di fila, il Treble, la prima Champions della storia del club. Decisa dal gol di chi meno di tutti teneva al protagonismo. Rodri è il tassello mancante per mentalità e superintelligenza tattica (sarà a sua volta un eccellente allenatore, se un giorno vorrà). Nel frattempo fa risorgere anche la Spagna, Nations League più Europeo in dodici mesi.

Il Real Madrid in queste ore s’indigna, s’arrocca attorno al talento innato di Vinícius. Ma l’ex ragazzino che sognava Zidane non ha mai avuto certi colpi: ne ha trovati altri, rarissimi nel calcio moderno, leggendo il gioco come chi è arrivato a conoscenza della soluzione dopo un lungo viaggio. Il cavallo non conta, insegna lui. «Mi piacerebbe che qualcuno nel mio ruolo possa tornare a vincere il Pallone d’Oro», questo l’augurio che fece qualche mese fa. Ce l’ha fatta, anche senza la spinta di Instagram, come i grandi del passato. Loro non avevano opzioni: per Rodri la scelta è tutto. Dal primo all’ultimo passaggio.