La nuova Juventus sta facendo fatica a segnare, ma anche a divertire

La rivoluzione di Thiago Motta è ancora lontana dal suo compimento: un'eccessiva smania di controllo determina un gioco ripetitivo e una scarsa pericolosità offensiva.

Quando, al minuto 55′ della partita contro lo Stoccarda, Thiago Motta ha effettuato le prime tre sostituzioni contemporaneamente (Cambiaso, Weah e Locatelli per Savona, Conceição e McKennie), la sensazione comune era che il gol annullato poco prima a Undav avesse svegliato il tecnico della Juve da un’improvvisa letargia. Una letargia che, di fatto, gli aveva impedito di individuare prima i correttivi da apportare in corso d’opera per contenere una squadra che stava dominando la Juventus utilizzando le sue stesse armi. Il fatto che, poi, da quel momento in avanti, i bianconeri siano effettivamente riusciti a riguadagnare un minimo di campo e fluidità posizionale, alimentando persino la percezione di potercela fare anche dopo l’inserimento di Adzic al posto di Vlahovic, e con Yildiz spostato al centro dell’attacco, ha confermato l’esistenza di una precisa motivazione tattica alla base della prima sconfitta stagionale: l’infortunio nel riscaldamento di Douglas Luiz – sostituito da Kephren Thuram – ha costretto Thiago Motta a cambiare all’improvviso un piano partita costruito sull’idea di gestione dei ritmi e del possesso per virare verso un approccio più diretto, improntato sulle transizioni lunghe e la ricerca della verticalità. Un approccio che, però, si è scontrato fin da subito con l’atletismo debordante dello Stoccarda, che ha tolto alla Juve i metri di campo da poter attaccare con un’aggressività feroce sulla prima costruzione dei bianconeri: «Non siamo mai riusciti a togliergli il controllo del gioco. Nel primo tempo riuscivano a superare la nostra prima pressione con un solo difensore; abbiamo sofferto il loro ritmo, faticando a imporre il nostro», ha dichiarato Motta ai microfoni di Sky subito dopo il fischio finale.

Il fatto che, nell’analisi di Juventus-Stoccarda, l’allenatore italo-brasiliano sia partito dal controllo del gioco e da ciò che comporta averlo o non averlo, non deve stupire. Quello del controllo è un concetto fondamentale e ricorrente nel calcio e nella retorica di Thiago Motta, assieme a quello di dominio. Perché senza controllo non può esserci il dominio, e quindi la prestazione e quindi la vittoria. E se c’è una cosa che è emersa con chiarezza in questo primo quarto di stagione è che la prima Juventus di Thiago Motta ricerca il controllo (del gioco) e il dominio (degli avversari) attraverso il possesso palla. Per i giocatori bianconeri, insomma, avere il pallone tra i piedi serve per acquisire convinzioni, consolidare certezze, mantenere la stabilità in fase difensiva, soprattutto dopo l’infortunio al ginocchio che terrà fuori Bremer fino al termine della stagione, privando la squadra di uno dei suoi leader fisici ed emotivi: lo dicono i dati riportati qualche giorno fa su X da Opta per cui i bianconeri sono, insieme al Real Madrid, la prima squadra d’Europa per sequenze su azioni da dieci o più passaggi; lo racconta questo post dalla newsletter di Calcio Datato in cui si parte proprio dalla qualità e dalla forma di questo possesso – che in molti ritengono fin troppo prudente e conservativo – per approfondire il tema e provare a spiegare perché la Juve faccia così fatica non solo a segnare, ma anche a creare occasioni davvero pericolose.

Al di là del possesso, dell’aspetto statistico e del rapporto tra occasioni create e gol realizzati – Understat rileva che, in in otto partite di Serie A, la Juve ha messo insieme 11 gol segnati per 11,86 xG complessivi; secondo xGscore, invece, in Champions League si registra una leggera overperformance: sei reti realizzate per 4,39 xG nelle prime tre gare del girone – la narrazione per cui la Juve sarebbe una squadra noiosa, che crea poco e che segna ancora meno, è una questione visiva prima ancora che di campo. Il senso è che questa definizione pare sostanziarsi in tutte quelle azioni in power play di stampo hockeistico in cui la palla gira da una parte all’altra del campo, in un tentativo di aggirare l’ostacolo piuttosto che provare a saltarlo. La gara contro la Lazio, in questo senso, è stata paradigmatica delle difficoltà che la Juventus incontra quando si tratta di rischiare qualcosa in più nell’ultimo terzo di campo per provare a concretizzare il vantaggio generato dallo sviluppo dell’azione costruita dal basso: chi era allo stadio ha raccontato sui social di come, a un certo punto, più che contro l’avversario, sembrava che i bianconeri stessero giocando contro la loro stessa natura, rifugiandosi in un crossing game che Marusic, Patric e Gila hanno avuto ben pochi problemi a gestire tranne che nell’occasione sul colpo di testa di Douglas Luiz; chi era, invece, davanti alla tv ha avuto una visuale più ampia sui problemi connessi a una rifinitura fin troppo lineare e monocorde, alla rigidità di una manovra che pareva potersi sviluppare soltanto sugli esterni attraverso le interazioni tra i giocatori che componevano le due catene laterali. «Avendo un uomo in più volevamo provare a far scegliere i loro difensori, soprattutto sull’esterno: il lato sinistro era quello dove potevamo incidere di più, mentre dall’altra parte avevamo un giocatore più adatto a sfruttare le sovrapposizioni. Cabal è arrivato sul fondo nel momento giusto a mettere quella palla finita in rete» ha detto Motta nelle interviste del postgara.

Queste parole contengono una prima spiegazione dell’attuale stagnazione offensiva. La Juventus, e questa è una delle variabili che tendiamo troppo spesso a sottrarre dall’equazione, è una squadra giovane (dal punto di vista anagrafico, ma non solo), in costruzione. E che solo da pochi mesi ha cominciato a guardare al futuro, abbracciando un’idea di calcio meno semplice e immediata per ciò che riguarda la curva di apprendimento. Come tutte le squadre giovani e in costruzione, sta cercando di darsi un’identità e una riconoscibilità attraverso la ripetizione e la riproposizione dei concetti provati e riprovati in allenamento, così da automatizzarli fino a renderli parte della propria memoria muscolare, a costo di sacrificare qualcosa in termini di prestazione. E, in fondo, la stessa espulsione di Romagnoli nella già citata partita contro la Lazio, è arrivata al termine di un’azione che, come ha dichiarato Pierre Kalulu, «era stata preparata: se loro venivano a pressarci e noi non riuscivamo a impostare io dovevo aprirmi sul lato e Locatelli si doveva abbassare».

Questa esplorazione dei propri punti di forza e dei propri limiti ha cozzato e sta cozzando con la necessità di fare punti, così da non perdere troppo terreno nei confronti dell’Inter e del Napoli – due squadre più pronte o comunque meno giovani. Così è aumentata la percezione per cui la Juve sia squadra in regressione o comunque in ritardo sulla tabella di marcia. Anche per questo la sconfitta con lo Stoccarda è sembrata così significativa: se fino a martedì sera si pensava che la Juventus faticasse unicamente contro quelle squadre incardinate attorno a una difesa a tre e abituate a fare densità nella propria metà campo, la partita contro i tedeschi ha mostrato la differenza che passa tra la versione in divenire e quella definitiva di un progetto tecnico. In sintesi: lo Stoccarda di Hoeness ha mostrato alla Juventus di Thiago Motta ciò che la Juventus stessa deve aspirare ad essere in termini di aggressività, efficacia del possesso e orientamento della pressione, alimentando quell’idea di sterilità e inconcludenza che le partite contro Genoa, Lipsia e Cagliari (dove, al netto dell’1-1 finale, i bianconeri avevano comunque calciato 21 volte verso la porta di Scuffet) parevano aver smentito.

La miglior partita della Juventus in questa stagione

Una seconda spiegazione dei limiti della Juve è legata, inevitabilmente, ai giocatori, alle loro caratteristiche, al loro adattamento a ciò che gli viene richiesto all’interno del 4-2-3-1/4-1-4-1 di Motta. Una delle maggiori criticità emerse nelle ultime due partite riguarda tanto la dimensione verticale delle tante corse senza palla quanto quella dell’ultimo passaggio. E non è un caso che tutto si sia amplificato nel momento in cui siano venuti a mancare contemporaneamente sia Koopmeiners che Nico González, vale a dire gli unici due giocatori in grado di garantire un certo cambio di rimo negli ultimi trenta metri, che sia con o senza palla. Questo macro-tema si porta dietro il corollario della posizione di Yildiz e dell’effettiva opportunità di continuare a schierarlo come esterno sinistro in assenza di Koopmeiners: sappiamo che per Thiago Motta la fascia costituisce il punto dal quale Yildiz deve partire per poi accentrarsi progressivamente palla al piede sfruttando le sue qualità nell’uno contro uno, e infatti la maggior parte delle indicazioni che arrivano al giovane turco in partita vanno in questa direzione; tuttavia la ritrosia da parte di Yildiz a eseguire il compito con la continuità che servirebbe ha generato un cortocircuito tecnico-tattico per cui il lato di campo dove si cerca di portare un giocatore a cercare l’uno contro uno contro il diretto avversario è diventato unicamente quello di Francisco Conceição, mentre Yildiz si limita a calpestare la riga in attesa della sovrapposizione del terzino con cui poter scambiare.

Non stupisce quindi che, come ha anticipato Fabiana Della Valle sulla Gazzetta dello Sport, per il big match di San Siro contro l’Inter Thiago Motta stia pensando di accentrare Yildiz, di avvicinarlo a Vlahovic – che sarà pure un enigma, ma è l’unico ad aver segnato con una certa continuità nonostante tutto – e di schierare un altro esterno puro come Mbangula. Tutto questo in attesa del recupero di Nico González, più abile nel bilanciare l’anarchia tattica di un giocatore nevrile ed elettrico come Conceiçao.

Anche questo, però, è solo uno dei tanti passi di cui si compone un percorso lungo e tortuoso. E che, in quanto tale, viene percepito come noioso da chi si aspettava che la Juventus fosse già a metà strada del suo processo di cambiamento. Forse il punto è tutto qui, forse non è la Juventus a essere noiosa in re ipsa, forse la Juventus sembra noiosa da guardare in questo momento in cui l’euforia inziale ha lasciato il posto alle prime difficoltà di adattamento a un sistema nuovo e complesso, e che va perfezionato un pezzo alla volta senza la frenesia di volere tutto e subito. Dove e quale sarà la verità lo potrà dire soltanto il tempo, a patto di essere disposti a concederlo.