La Sampdoria ai sampdoriani è un tentativo affascinante e disperato

Mancini, Evani, Lombardo, Invernizzi: il club blucerchiato, sull'orlo della retrocessione in Serie C, è andato a pescare nel suo passato. È già successo ad altre squadre, e non ha quasi mai funzionato.

«Ma come si fa a vivere in una città del genere?», si era chiesto tra sé e sé il diciottenne Roberto Mancini arrivando per la prima volta nella sua vita a Genova, da avversario, portando sul petto lo stemma del Bologna. Era il maggio del 1982, la stagione dei rossoblù aveva già preso una brutta piega e la sconfitta al Ferraris contro il Genoa non aveva certamente aiutato la ricerca di una salvezza che sarebbe sfumata sul rettilineo finale. Non poteva immaginare cosa gli avrebbe riservato il destino. Adesso invece lo sa benissimo, a tratti è ancora irascibile come ai tempi dei vent’anni ma è anche scafato e smaliziato grazie a quasi cinque decenni spesi nel mondo del calcio. Forse anche per questo, per non sporcare il ricordo di una vita da calciatore spesa quasi interamente con il blucerchiato addosso in un’atmosfera da gloria eterna, il suo nome non figura tra quelli con un ruolo definito in seguito alla chiamata alle armi del patron Matteo Manfredi.

Gli altri sampdoriani, oltre Mancini

È impossibile non riconoscere che ci sia un aspetto romantico nella scelta fatta dalla Sampdoria, quella di affidarsi a volti che ne hanno scritto pagine di storia sfavillanti. Il nuovo allenatore dei doriani, alle prese con il tentativo di non scivolare nel gorgo della Serie C, è infatti Alberico Evani: un altro che, ironia della sorte, in quel rovente maggio del 1982 era finito in Serie B, anche se con la maglia del Milan. Alla Samp era arrivato undici anni più tardi, nell’estate del 1993, dopo l’epopea della Sampd’oro, come parte integrante dell’ultimo rilancio di Paolo Mantovani prima che il destino gli presentasse il conto: con lui, sbarcarono a Genova anche Ruud Gullit e David Platt.

Secondo molti, a Genova, l’edizione 1993/94 della Samp fu la più forte di sempre, persino più di quella dello scudetto o della finale di Coppa dei Campioni. In bacheca, però, mise “solo” una Coppa Italia: roba che oggi pare comunque lontana un secolo. Un anno prima dell’approdo a Genova, dicembre 1992, proprio Evani aveva pennellato l’assist per l’ultimo gol azzurro di Gianluca Vialli, a Malta, e non è un caso che il nome di Stradivialli sia uno dei più citati nei messaggi dei tifosi della Samp in queste ore. Perché, in questo gruppo che si sta facendo carico del momento più tragico della storia del club, manca soltanto lui.

Al fianco di Evani ci sarà Attilio Lombardo. Lui sì, colonna dell’epopea di Boskov in panchina e Vialli y Mancini in campo, come amava chiamarli il vecchio Vuja, consentendosi una scivolata sullo spagnolo avendo allenato da quelle parti dal 1978 (Real Saragozza) al 1984 (Sporting Gijón), infilandoci in mezzo anche tre anni al Real Madrid. E poi Giovanni Invernizzi coordinatore dell’area tecnica, l’uomo buono per tutte le stagioni: non appena si liberava un buco nell’undici titolare di Boskov prima e di Eriksson poi, Invernizzi era la prima soluzione, affidabile e multiuso come un coltellino svizzero – pur arrivando dal vivaio del Como.

Altre esperienze simili

Ma in questa Samp che cerca di scrollarsi di dosso le paure di una stagione da film dell’orrore, con tre allenatori già fatti saltare in aria nella ricerca di una quadratura mai davvero trovata nonostante investimenti di alto livello per la categoria, in questa mossa che ammicca in maniera smaccata e sguaiata al cuore dei tifosi blucerchiati, si rintraccia anche e soprattutto il germe della disperazione, di un ritorno al passato nel quale rifugiarsi per pensare il meno possibile al futuro, nella speranza che il presente non si riveli troppo amaro. Una mossa facile e scontata. Ma anche molto emotiva, che parla direttamente alla pancia del tifoso, nella speranza che l’amore cancelli il raziocinio e che, per il bene supremo, si remi tutti dalla stessa parte.

È una situazione, quella del Doria, che richiama da vicino un’altra scelta di cuore presa in momenti di puro dramma sportivo: stagione 1992/93, Vittorio Cecchi Gori che utilizza la Fiorentina come il giocattolo di famiglia nonostante sia di fatto ancora di proprietà di papà Mario ed esonera davanti ai giornalisti Gigi Radice con la squadra a ridosso della zona Uefa a inizio gennaio. A conti fatti, una delle scelte peggiori di tutti i tempi: il tracollo con Aldo Agroppi in panchina, quindi la svolta di cuore: alla trentesima giornata, per evitare la retrocessione in B, sulla panchina viola tocca a Luciano Chiarugi, uno dei pilastri dello scudetto del 1969, e Giancarlo Antognoni, il ragazzo che giocava guardando le stelle. Un disastro epocale, una discesa agli inferi firmata in calce dalla conclusione floscia e sghemba di Andrea Carnevale, centravanti della Roma, che invece di sparare nella porta vuota dell’Olimpico il pallone buono per spedire in B l’Udinese decide di graziarla, condannando la Fiorentina a una delle retrocessioni più incredibili che il nostro calcio ricordi.

Era andata in maniera simile, e non ce ne vogliano a questo punto i tifosi blucerchiati, al Torino stagione 1988/89: esonerato, anche qui, Gigi Radice, la scelta cade su Claudio Sala, il Poeta del Gol, l’uomo che per anni aveva foraggiato di cross Paolo Pulici e Ciccio Graziani. Nessuna esperienza da allenatore in prima squadra in quel momento e solo due panchine dopo quella stagione, con Catanzaro e Moncalieri. Un’annata da lacrime e sangue condita dall’inevitabile retromarcia, anche qui alla vigilia della trentesima giornata, per portare in panchina un’altra icona della storia granata, Sergio Vatta, il mago delle giovanili del Toro. Finendo, inesorabilmente, in Serie B.

La scelta del cuore, in situazioni di questo tipo, è certamente la più comoda, anche solo per mettersi al riparo da contestazioni che altrimenti rischierebbero di diventare furibonde: in epoca più recente, e con risultati certamente migliori rispetto agli esempi già citati, lo ha provato sulla propria pelle la Roma, che una volta sacrificata sull’altare dell’esonero la divinità pagana che risponde al nome di José Mourinho, ancora rimpianta da larga parte della tifoseria, era andata in maniera quasi fisiologica su Daniele De Rossi, uno dei pochi a poter vantare un passato tale da consentirgli di non disperdere il patrimonio infinito del sostegno del tifo giallorosso.

Balorda nostalgia

Non saranno però la nostalgia e l’amore a salvare la Sampdoria, che dovrà trovare in campo le risposte necessarie per non scivolare in un burrone del quale diventa persino difficile vedere il fondo. Viene da chiedersi quale sia la visione a medio termine, se l’obiettivo possa essere davvero il coinvolgimento con un ruolo attivo di Mancini in futuro. Anche se l’intervista rilasciata al Tg1 dall’ex ct della Nazionale non sembra andare in questa direzione: «No, non ho nessun ruolo alla Sampdoria, assolutamente. È solo che la Samp per me è qualcosa di speciale, quindi in un momento così di difficoltà, visto che conosco il presidente e parliamo spesso, se posso dare un consiglio lo do».

Evani non ha praticamente uno storico come allenatore di club se non un’esperienza al San Marino che risale a 15 anni fa, pur potendo vantare la trafila con l’Italia Under 18, 19 e 20; Lombardo è dal 2010 in pianta stabile nei vari staff di Mancini; paradossalmente il componente del team con un maggiore vissuto da allenatore “in prima” è Angelo Gregucci, altro fedelissimo di Mancini che non ha mai avuto grande fortuna in Serie A, d’accordo, ma ha all’attivo diverse stagioni tra B e C.

Questi sampdoriani – più gli “acquisiti” – avranno il compito, in pochi giorni, di rimettere insieme i cocci di un vaso che a forza di rompersi è diventato fragilissimo. Dopo, soltanto dopo, si vedrà in che direzione andrà la Sampdoria, se il ricorso a tutta questa balorda nostalgia, come ha cantato di recente un doriano così giovane da non aver mai visto né Lombardo, né Mancini, né Invernizzi, né Evani con la maglia blucerchiata addosso, avrà davvero avuto un senso.

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