Luis Enrique sta facendo al PSG ciò che Guardiola ha fatto al Manchester City

La squadra francese ha cambiato pelle e politica, non ha più stelle di prima grandezza eppure fa paura a tutti. Merito di un allenatore a cui sono state date grande fiducia e grande libertà.

Da quando è diventato l’allenatore del PSG, nell’estate del 2023, la narrazione intorno a Luis Enrique ha subito un mutamento radicale, reggendosi quasi interamente sull’idea, anzi sul ruolo, del normalizzatore. Vale a dire quello del tecnico chiamato a razionalizzare e mettere ordine all’interno di un contesto disfunzionale in cui la presenza di giocatori fin troppo ingombranti, per poter essere allenati sul serio, aveva finito con il fagocitare sul nascere qualsiasi progetto di ricostruzione e sistematizzazione del talento. Di fatto, oggi è praticamente impossibile trovare un articolo su Luis Enrique in cui non si esalti il collettivismo che è riuscito a imporre all’interno di un consesso di talenti che sono tutti sullo stesso piano e allo stesso livello, liberi finalmente di rapportarsi alla pari senza che nessuno imponga il proprio star power sugli altri; l’ultimo, andando in ordine puramente cronologico, è quello pubblicato su The Athtletic in cui Tom Williams ha ripercorso le tappe salienti del percorso che ha portato il tecnico di Gijón a cambiare l’approccio del club tanto al calciomercato quanto alle competizioni. La ripetitività, per certi versi persino inevitabile, di questa tematica potrebbe quasi far percepire il PSG come una squadra operaia che cristallizza i propri momenti di nobiltà calcistica nelle giocate fuori scala di Dembélé, Doué, Barcola e Kvaratskhelia. In ogni caso, al di là di forzature e letture alternative, la realtà è che Luis Enrique ha preso questo suo compito molto sul serio. E lo ha fatto fin da subito.

«Il PSG sarà più forte senza Mbappé»

Nell’agosto 2023, a poco più di un mese dal suo insediamento e nel pieno della tempesta scatenata dalla decisione della proprietà di mettere fuori rosa Kylian Mbappé per via della scelta di non rinnovare il contratto in scadenza, Luis Enrique aveva postato una storia Instagram in modo che si evitassero ulteriori speculazioni sul suo futuro dopo le voci che lo volevano già dimissionario a causa dei presunti con il direttore sportivo Luís Campos. Vale a dire l’altro architetto – insieme a Jorge Mendes – di questo nuovo PSG meno stellare ma più aderente al concetto di squadra forte, solida, sostenibile: «Il nostro obiettivo è quello di ingaggiare giocatori che hanno fame, che abbiano voglia di scrivere il proprio nome nei libri di storia del club» avrebbe poi dichiarato il tecnico spagnolo un anno dopo quella storia Instagram nel corso di una lunga intervista con la tv ufficiale del club. Un quel momento il PSG era nel bel mezzo di una sessione di mercato condotta apparentemente in tono minore e che sarebbe invece diventata il preludio a quello che Pablo Polo su Marca avrebbe definito come «il progetto senza stelle che convince Parigi», dopo che i primi riscontri sul campo avevano fatto capire che la strada imboccata era quella giusta.

In particolare a metà ottobre, dopo una convincente vittoria contro lo Strasburgo – quattro gol messi a segno da quattro giocatori diversi – Luis Enrique aveva passato i giorni successivi a ribadire quanto fosse importante che la sua squadra continuasse a creare occasioni da gol a prescindere da chi fosse poi il marcatore, liberando sé stesso e il PSG dalla sindrome dal peso di dover per forza dipendere dalla propria superstar, fosse essa Messi, Neymar o Mbappé. Quello stesso Mbappé che era stato invitato a «difendere e a dare l’esempio come Michael Jordan» in un video che sarebbe poi diventato virale.

«Tutti noi sapevamo che Kylian avrebbe lasciato il PSG: per noi non cambia nulla anzi sono convinto che il prossimo anno saremo più forti. Segnatevi queste mie parole: il PSG sarà più forte», disse Luis Enrique il giorno dopo l’ufficializzazione dell’addio di Mbappé in direzione Madrid. Nove mesi dopo quelle parole le avrebbe riprese lui stesso alla vigilia della partita in campionato contro il Monaco: «L’anno scorso ho avuto molto coraggio quando vi ho detto che saremmo stati una squadra migliore. Lo penso ancora e i dati sono lì che lo dimostrano. È ovvio che ci sarebbe piaciuto tenere un giocatore come Kylian, ma la squadra sta dando risposte molto buone a una situazione che si è verificata anche se noi non volevamo; vi ho già spiegato che avrei rinunciato volentieri a un giocatore da 40 gol se ne avessi avuti altri in grado di segnare molto. Ecco qual è il nostro obiettivo». Manco a dirlo, poche ore dopo sarebbero arrivate altre quattro reti (a una), questa volta realizzate da tre calciatori diversi – Vitinha, Kvaratskhelia e Dembélé.

Luis Enrique, pedagogo spigoloso

Questo sostanziale egualitarismo, in campo e fuori, è il concetto che attualmente rappresenta meglio di tutti la filosofia calcistica di Luis Enrique, oltre che la chiave di lettura privilegiata per inquadrare il suo essere soprattutto un formatore, cioè qualcosa che è parte integrante della sua identità in questa fase della carriera. Nel corso degli anni siamo stati abituati a raccontarlo come un qualsiasi allenatore di grandi squadre, uno che ha fatto bene con il Barcellona, che poteva fare di più con la Nazionale spagnola, che sta cercando di arrivare con il PSG là dove nemmeno un mostro sacro come Carlo Ancelotti è riuscito; un equivoco di fondo che si sta via via sgretolando nelle pieghe di una stagione in cui il Luis Enrique pedagogo ha preso progressivamente il sopravvento sul Luis Enrique allenatore.

In questo modo, il tecnico spagnolo ha rivelato la sua vera natura di paziente seminatore rimasta troppo a lungo nascosta dietro la maschera del personaggio spigoloso e poco incline a scendere a compromessi. Soprattutto con i giornalisti, spesso ritenuti non all’altezza di sostenere un dialogo da pari a pari sulle questioni di campo e trattati, perciò, con un distacco non sempre regale e che lo fa apparire più sgradevole di quanto non sia in realtà: «Se potessi rinunciare a metà del mio stipendio pur di non parlare con voi lo farei ma pare che sia impossibile», dichiarò Luis Enrique in una conferenza stampa a fine settembre, ridendo ma non troppo. Pochi giorni dopo, a margine della brutta sconfitta nel girone di Champions League contro l’Arsenal, avrebbe detto a Margot Dumont di Canal+ che non le avrebbe spiegato la sue tattiche di gioco perché comunque non sarebbe stata in grado di capirle: «Credo di conoscere questo gioco meglio di voi, conosco i miei giocatori uno per uno e so come voglio far giocare la mia squadra. Non leggo i giornali e non mi interessa quello che viene scritto», raccontava già nel 2021 quando il dibattito sull’opportunità di andare oltre un certo stile di gioco aveva finito con il riguardarlo in prima persona.

Il nuovo PSG

Il 5 aprile, giorno in cui il PSG ha vinto la Ligue 1 con sei giornate d’anticipo, e senza perdere nemmeno una partita, Guillem Balague ha scritto un articolo in cui descrive Luis Enrique come un uomo «intenso, ossessivo, abituato a far parlare il suo lavoro» e che, proprio per questo, è stato in grado di trasformare un club logorato da uno star system autoimposto in una squadra «giovane, vivace e divertente da guardare». Una squadra ordinata e coordinata, che si muove al ritmo di una serie di connessioni tecniche ma anche psicologiche sviluppate attraverso il lavoro e il confronto quotidiano, che ha sparso il sale sulle macerie del Manchester City di Guardiola e che ha brutalizzato il Liverpool di Slot nel doppio confronto, andando a vincere ad Anfield dopo che lo 0-1 dell’andata aveva costretto i parigini a fare i conti con i propri demoni e con paure vecchie e nuove.

E se nel passato più o meno recente la soluzione di ammassare talento senza criterio per essere all’altezza delle grandi storiche d’Europa non aveva funzionato, questa volta per alzare davvero il livello individuale e collettivo è bastato raggiungere quell’equilibrio per cui non è, e non sarà mai, il PSG di Dembélé – che ure sta disputando la stagione della vita, 32 gol e 8 assist in 40 partite – o di Kvaratskhelia, e nemmeno il PSG di Luis Enrique, ma semplicemente il PSG. E basta. Qualcosa che con Mbappé, ma pure con Neymar, Messi, Ibrahimovic e Ancelotti non sarebbe stato possibile.  Soprattutto se ne facciamo una questione di congiuntura temporale.

Negli ultimi mesi in molti sono andati a ripescare questo articolo di Le Parisien di metà dicembre in cui si evidenziava come si fosse ormai entrati in una nuova fase, quella del moderno PSG, un’era in cui la centralità dei grandi giocatori viene soppiantata da una sostenibilità (economica, ma non solo) a lungo termine. E proprio come se ci trovassimo in una fase del Marvel Cinematic Universe, Luis Enrique si è trasformato nel protagonista perfetto di questa tempolinea, l’unico supereroe in grado di prendere il posto delle icone del passato per portare tutti gli altri in nel futuro, costruendo qualcosa che sia in grado di sopravvivergli anche quando non sarà più l’allenatore di una squadra che, però, non è mai stata così sua.

Come Pep Guardiola

A inizio stagione, mentre tutti intorno a lui si chiedevano come mai per sostituire Mbappé non fosse arrivato nessuno di diverso da João Neves e Désiré Doué, lui non smetteva di ricordare come avesse espressamente voluto ogni singolo giocatore del gruppo a sua disposizione. In questo senso quello con il PSG è stato il classico matrimonio perfetto, dove gli interessi di entrambe le parti si sono trovati a convergere al posto giusto e nel momento giusto: il club aveva bisogno di qualcuno che inaugurasse questo nuovo corso meno appariscente, il tecnico necessitava di un luogo in cui lasciare il segno e costruire da zero una dinastia che non fosse già tale, grandiosa già di suo, come per esempio gli era accaduto a Barcellona.

In qualche modo è come se Luis Enrique fosse tornato al punto di partenza, alla stagione 2012/13 sulla panchina del Celta Vigo – un’annata che gli era servita per ripulirsi dalle scorie della tribolata esperienza alla Roma. Oggi come allora non ha mai avuto così tanta libertà d’azione – Andrés Onrubia ha raccontato su AS come possa essere considerato il vero padrone del club – e così tanto materiale grezzo su cui poter lavorare, con in più l’esperienza e la credibilità giuste per poter ricreare a Parigi lo stesso microcosmo che ha permesso a Guardiola di fare il Manchester City. Che poi è ciò che anche Lucho ha sempre sognato di fare, persino quando allenava il Barcellona della MSN campione di tutto e doveva accontentarsi di seguire la strada tracciata da altri. Questa volta no, questa volta è lui a decidere il percorso, i tempi di percorrenza, le soste, la velocità di crociera. Lo ha meritato lui, lo ha meritato il PSG che si è fidato di lui e della sua visione di grandezza: stasera inizieremo a scoprire quanto manca davvero al suo compimento.