Fa sempre uno strano effetto vedere Gianluigi Buffon in borghese prima delle partite della Nazionale. Perché lo stemma della FIGC Gigi l’ha avuto sul petto per più di vent’anni da giocatore, e sapere che non toglierà giacca e scarpe eleganti per andare in campo è sempre una sorpresa – almeno per le generazioni che l’hanno visto giocare con Baggio e Bergomi, poi con Immobile e Insigne. Da agosto 2023 Buffon è capo delegazione della Nazionale, la figura che rappresenta il Presidente federale e la FIGC nelle occasioni ufficiali. In questo ruolo, un totem della storia recente dell’Italia come lui ci sta benissimo: è perfetto per raccogliere l’eredità di Gigi Riva e Gianluca Vialli. Ma da settembre Buffon ha anche un altro incarico, più operativo, più tecnico: è il direttore sportivo del Club Italia, un ruolo più vicino all’area di competenza del ct Luciano Spalletti, quindi più connesso al campo e alla squadra.
La prima cosa importante da notare è che questo nuovo incarico è più in linea con la carriera che Buffon vuole costruire da quando si è ritirato. A febbraio, infatti, l’ex portiere della Juve e della Nazionale ha ottenuto il diploma da direttore sportivo a Coverciano. C’è però un secondo elemento notevole in questa storia. Avere Buffon come direttore sportivo è importante anche per FIGC e Club Italia, che in questo modo si allineano a molte altre Nazionali già dotate di una figura di questo tipo.
Il ruolo di DS di una Nazionale può essere inteso solo in chiave moderna. Nel documento ufficiale della Federazione che regola l’elenco speciale dei direttori sportivi, all’articolo 1 (comma 2), si specifica che tra i doveri di un DS ci sono «attività concernenti l’assetto organizzativo e/o amministrativo della Società, con particolare riferimento alla gestione dei rapporti fra società e calciatori o tecnici e la conduzione di trattative con altre Società Sportive, aventi ad oggetto il trasferimento di calciatori, la stipulazione delle cessioni dei contratti e il tesseramento dei tecnici, secondo le norme dettate dall’ordinamento della Figc». È chiaro che questa definizione si adatti meglio a un dirigente di una squadra di club, cioè di un’azienda articolata, stratificata, in cui l’integrazione tra tutte le componenti – dagli uffici al campo – è una condizione indispensabile per far funzionare la macchina.
Solo che negli ultimi anni stiamo scoprendo che la maggior parte delle Nazionali vuole comportarsi come un club. Non è un caso che lo scorso settembre la Uefa abbia organizzato a Berlino la quattordicesima “Conferenza per commissari tecnici e direttori sportivi delle Nazionali maschili” per discutere degli Europei appena conclusi. Il doppio ruolo è ormai dato per scontato. Servono entrambi, perché le due figure rispondono a esigenze diverse. L’allenatore per definizione pensa a breve termine, deve vincere la prossima partita, deve preoccuparsi di raggiungere gli obiettivi entro fine stagione. Il direttore sportivo pensa sempre al lungo periodo, si occupa dello sviluppo della squadra nel corso degli anni, deve guardare alla crescita dei giovani e tenere d’occhio l’evoluzione del progetto. È il motivo per cui, ad esempio, la figura del manager all’inglese è ormai superata: con prospettive così divergenti è impossibile fare le due cose insieme.
Una Nazionale deve pensare e programmare, deve decidere cosa fare da grande. L’esempio più forte di questa tendenza riguarda la Germania e Jürgen Klinsmann, in una storia ambientata una ventina d’anni fa. È stato Klinsmann a decidere che il calcio tedesco, all’epoca avvitato in una spirale di decadenza, andasse svecchiato e modernizzato. «Innanzitutto ho creato una nuova figura, una specie di direttore sportivo della Nazionale. Una persona che sta a metà tra i vertici della Federazione e la squadra. Si occupa delle questioni più varie, dai rapporti con il Cancelliere a quelli con lo sponsor di turno, perché l’allenatore non può e non deve perdere tempo, deve concentrarsi sul campo e sui giocatori. Scelsi Oliver Bierhoff, che mi sembrava perfetto per il compito», ha detto Klinsmann in un’intervista in cui ha raccontato la genesi di quella che poi abbiamo chiamato Goldene Generation. È la nidiata dei Reus e dei Draxler e dei Götze, quella che dieci anni dopo la rivoluzione avrebbe vinto i Mondiali in Brasile.
La Germania ha aggiornato Academy, strutture e linee guida per lo sviluppo dei giovani. Quindi ha puntato sulla tecnica e sulla creatività, arrivando a sviluppare talenti che prima sembravano appartenere solo al Sudamerica e a pochi altri Paesi. Forse è stato un colpo di fortuna che il calcio sia andato in quella direzione, grazie all’esplosione del gioco di posizione, prima di sterzare verso la dimensione fisica e ultraveloce degli anni Venti. O forse c’è stata una capacità di visione e intuizione che dal campo non si ha tempo di interpretare, ma dalla scrivania sì.
Ecco perché non sono più i tempi delle Nazionali accorpate insieme all’ultimo momento sulla base del talento e del miglior materiale umano disponibile. È sempre più importante ricostruire dinamiche e identità tipiche di una squadra che si allena tutti i giorni in gruppo. Chi lo fa più di tutti è probabilmente la Spagna. Lì la figura del direttore sportivo – vacante da alcune settimane e per questo oggetto di dibattito – è vista come l’elemento di continuità del progetto tecnico, anche nelle giovanili e nonostante i cambiamenti dei ct.
D’altronde senza un direttore sportivo è difficile pensare di poter agire su un livello più alto e più ampio della singola squadra. Lo lasciava intendere José Francisco Molina in un’intervista al País vecchia quasi di cinque anni. L’ex direttore sportivo della Nazionale spagnola spiegava che il calcio è in continua evoluzione e chi vuole restare competitivo non può starsene fermo: «Se puoi sorpassare, devi sorpassare. Il dibattito sullo stile, su come attaccare, come difendersi si aggiorna di continuo. E così fa Luis Enrique [all’epoca allenatore della Nazionale spagnola, ndr]». Poi quando l’intervistatore gli aveva chiesto del gioco di posizione troppo compassato della Spagna, Molina aveva risposto: «Scegliendo Luis Enrique come allenatore abbiamo puntato su un modello di pressing aggressivo nella metà campo avversaria, dove quando hai la palla, devi cercare di mantenerla ma anche di colpire, per attaccare non appena si crea spazio. È un modello che non prevede solo di essere larghi, che è ciò che ci interessa, ma anche di essere profondi e raggiungere l’area avversaria il più spesso possibile».
C’è un’altra tendenza che rende ancora più necessaria l’evoluzione delle Nazionali di calcio. Gli esempi più recenti sono quelli di Malta e Indonesia, ma anche quello relativo all’esordio di Dean Huijsen con la Spagna: e Nazionali, attraverso le Federazioni, sono nel grande gioco del calciomercato mondiale. In modo diverso e più sfumato dei club, con parametri e condizioni tutte loro. Ma anche loro sono alla ricerca di nuovi giocatori da inserire a roster.
Agli ultimi Europei l’Albania sembrava una squadra creata in laboratorio, tra alambicchi e becher. La Federazione di Tirana ha impostato una nuova partita di Football Manager fatta di scouting e reclutamento, una rete di viaggi e mani da stringere, poi anche video, software e intelligenza artificiale in un database con oltre ottocento nomi potenzialmente convocabili: tutto per cercare talenti in giro per il mondo da aggregare alla Nazionale di Sylvinho. È forse l’unica soluzione possibile per un Paese che ha tre milioni di abitanti in patria e nove milioni di albanesi figli della diaspora in giro per il mondo. A Euro2 024 diciannove dei ventisei convocati erano nati fuori dai confini nazionali.
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E così fanno tanti altri. Nel 2021 la Federazione di calcio argentina ha annunciato la fondazione di un dipartimento di scouting internazionale il cui compito è scovare giovani talenti che possano rappresentare la Nazionale argentina anche se nati e/o soggiornand da tempo in altre nazioni. L’Algeria ha creato il “progetto radar” con lo scopo di monitorare la galassia dei talenti con doppia nazionalità, con un occhio in particolare alla Francia. E un lavoro simile viene svolto anche dal Marocco, i cui giocatori migliori – Achraf Hakimi, Hakim Ziyech, Brahim Díaz, Sofyan Amrabat – sono nati in Europa.
Con la nomina di Buffon anche l’Italia è entrata a tutti gli effetti nella nuova era delle Nazionali di calcio, dando ancora maggior valore alla denominazione Club Italia. Anzi, rispetto ai club, per gli Azzurri c’è una specie di inversione di ruoli tra direttore sportivo e allenatore di campo. Perché Spalletti non può lavorare con i calciatori tutti i giorni. Allora tocca a Buffon il lavoro di cucitura tra la Nazionale e i giocatori, uno sforzo meticoloso per entrare nel lavoro quotidiano senza diventare ingombrante, per aggiornare lo staff tecnico sulle condizioni dei giocatori e fare in modo che la macchina degli Azzurri sia in funzione sempre, 365 giorni l’anno.