«Ho dato al gioco tutto quello che avevo, 18 anni della mia vita, tutti i giorni, senza scuse. Il mio corpo si sente ancora pronto per le sfide ma il mio cuore non è più qui», scriveva Wojciech Szczesny il 27 agosto del 2024, annunciando quello che a tutti sembrava un ritiro prematuro. Lasciare il calcio a 34 anni è ormai una scelta fuori dal tempo per un giocatore di movimento, figurarsi per un portiere, il ruolo che più di ogni altro riesce a farsi beffe degli anni che passano. Dopo un’estate da esubero, con offerte sul tavolo di qualsiasi tipo, dal Monza alla MLS, dall’immancabile Arabia Saudita a qualche pseudo-big sparsa per l’Europa, il polacco aveva optato per l’ultima uscita alta della sua carriera. O almeno così sembrava.
Szczesny non ha saputo resistere al Barcellona
Al triplice fischio di un delirante Atletico Madrid-Barcellona, con i padroni di casa avanti 2-0 al 70’ e sconfitti 2-4 con due sberle in pieno recupero, lo stesso Wojciech Szczesny si è presentato ai microfoni della tv ufficiale della Liga con un bel sorriso: «Non abbiamo mai perso da quando sono in porta? È una coincidenza. La squadra è stata incredibile, l’unica cosa che devo fare è evitare di sbagliare e rimanere concentrato. Sui due gol potevo fare poco, almeno così mi è sembrato. Ma i risultati arrivano grazie alla squadra, ne va dato merito a loro, non a me».
Tra l’annuncio del ritiro e questo sorriso esploso sul volto come ai tempi d’oro sono passati sette mesi. In mezzo c’è stata la chiamata del Barça, una tentazione troppo forte per resistere, dopo l’infortunio di Ter Stegen. Un po’ di panchina, quindi il ritorno tra i pali: sedici partite senza mai perdere, il malcapitato Iñaki Peña confinato sullo sfondo, i blaugrana in linea per vincere non solo la Liga ma anche quella Champions League che ancora manca nella bacheca di un uomo, prima che un portiere, decisamente fuori dagli schemi.
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Legia, Widzew Lodz, Polonia Varsavia, Wisla Cracovia. Come una sorta di amuleto, Maciej Szczesny – il padre di Wojciech – ha scritto la storia del calcio polacco, vincendo il titolo nazionale in quattro squadre diverse e togliendosi lo sfizio, nel marzo del 1991, di eliminare la Sampdoria dalla Coppa delle Coppe: Tek, come fin da subito è stato chiamato durante la sua esperienza inglese, era nato da meno di un anno. La porta come un fatto di sangue, epilogo ineluttabile, roba scritta nelle stelle.
A vederlo oggi, veterano in una squadra infarcita di ragazzi prodigio, Szczesny sfoggia un’aura da veterano, leader, spirito guida. Ma il modo in cui si è preso il Barcellona non è stato lineare: la panchina all’inizio, qualche errore sparso per strada, una partita ai limiti del tragico a Lisbona, contro il Benfica, in un 4-5 dai vaghi sentori balneari. Contro un altro club di Lisbona, lo Sporting, era stato costretto a fermarsi: un dolore al petto nella partita allo Stadium nel 2023, il cambio, la sensazione di essere vicino al peggio. «Pensavo che stessi per morire, è stato spaventoso. Ho passato la palla a un compagno e sentivo come se il cuore stese per esplodere. È stato orribile», avrebbe raccontato qualche mese più tardi, a pericolo ormai lontano, un incubo scacciato con i pugni come un cross troppo tagliato per rischiare la presa.
E sempre contro il Benfica, Szczesny ha spazzato via definitivamente dubbi e critiche. Stavolta, però, in un contesto decisamente più importante della League Phase della rinnovata Champions: andata degli ottavi, il classe 2007 Cubarsí espulso dopo 22 minuti, il Benfica pronto a esondare. Tek si sarà ricordato degli insegnamenti del padre («La prima volta che ho indossato i guanti avevo tre-quattro anni, ero con papà: non mi piaceva per niente e non mi piace ancora oggi. Volevo fare l’attaccante ma ero una punta scarsa, alta, che non controlla la palla»), di quelli ricevuti nell’Academy dell’Arsenal, dove era arrivato sedicenne, prelevato dalle giovanili del Legia, e ha dato alla squadra la sicurezza che serviva: mentre la JUEFA, con gli occhi rivolti altrove, premiava Pedri come MVP della partita, Szczesny se la rideva, contando le parate che avevano consentito al Barça di vincere – insieme al gol di Raphinha – invece di soccombere. «Metà del premio è mio. Qui ho ritrovato l’emozione di giocare anche se tornare in porta dopo il ritiro è stato strano: mi ha aiutato l’esperienza».
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La semplicità di Hansi Flick ha dato nuova linfa al Barcellona
Deve essere stata l’esperienza ad aver indotto Hansi Flick alla retromarcia: dopo lo stop di Ter Stegen, infatti, l’arrivo di Szczesny era stato una sorta di polizza assicurativa, il veterano da mettere alle spalle di Iñaki Peña per stare tranquilli in caso di emergenza. E le critiche erano arrivate abbastanza presto: non solo il passaggio a vuoto col Benfica, ma anche l’espulsione nella finale di Supercoppa di Spagna, comunque vinta, contro il Real Madrid. «Sono due grandi portieri, a un certo punto dovevo prendere una decisione. Iñaki ha fatto un ottimo lavoro ma ho dovuto scegliere pensando alla squadra. Essere il portiere titolare di una squadra come il Barcellona è un ruolo speciale, è una delle scelte più complicate che abbia mai dovuto prendere», raccontava Flick alla fine di gennaio, ancor prima di ritrovare Szczesny nella sua versione migliore. Aggiungendo al quadro un aspetto fondamentale: «Non è solo un grande portiere, ma ha anche un’ottima personalità».
Non ha mai usato giri di parole, Szczesny, uno che è stato capace di essere protagonista e comprimario all’Arsenal, di difendere il posto tra i pali della Roma nonostante l’arrivo di un futuro fuoriclasse come Alisson e di aspettare pazientemente il proprio turno alle spalle di Gigi Buffon una volta approdato alla Juventus, per poi raccoglierne la pesantissima eredità: «Mi sentivo pronto, a me sembrava una cosa facile: magari per un altro meno sveglio a livello mentale non sarebbe stato semplice da gestire».
Szczesny è un calciatore unico
Quello di Szczesny è un profilo di giocatore lontanissimo dagli automi che siamo abituati a conoscere, qualsiasi intervista post partita del polacco può nascondere un potenziale titolo, come quando ai microfoni di Dazn, davanti all’ipotesi di un futuro da opinionista, gelò con una risposta secca il parterre composto da Montolivo, Behrami, Matri e Parolo: «Il mio migliore amico nel calcio mi ha detto una volta che il suo obiettivo nel calcio è guadagnare abbastanza soldi per non dover poi lavorare in tv. Lo condivido, con tutto il rispetto per voi eh!».
Non sembra conoscere la diplomazia, se la conosce non ne fa uso. A marzo del 2024, mentre Allegri cercava di minimizzare una sconfitta contro la Lazio arrivata all’ultimo istante, il polacco andava dritto al punto: «Qui si deve imparare a gestire la pressione, che è la cosa più bella che abbiamo nel calcio: se devo giocare senza pressione c’è il calcetto con gli amici, non la Juventus».
Wojciech suona il pianoforte e la chitarra, ama l’architettura. E da portiere ha imparato a scendere a patti con l’errore, la cosa più importante per chi ricopre l’unico ruolo in cui ogni sbavatura è letale: «Da giovane, l’errore mi sembrava la fine del mondo. Ma più ne fai, più sei abituato a farne e li accetti. Fa parte del gioco. Oggi li accetto, durante la partita non mi cambiano più la vita».
A Barcellona, Szczesny sta vivendo una nuova giovinezza
C’è chi ha vissuto male il suo passo indietro, il sì alla corte del Barcellona dopo aver rescisso con la Juventus. Mentre i giornali italiani parlavano del Monza come possibile approdo post-Juve, aveva persino rifiutato la chiamata dell’Arsenal per un clamoroso ritorno a casa, un colloquio concesso solo per l’enorme rispetto nei confronti del club che lo aveva consegnato al grande calcio. Poi, però, era arrivata la chiamata dei blaugrana: «Ero sicuro che non sarei mai tornato sui miei passi. Quando ho ricevuto l’offerta, ho guardato mia moglie sperando che mi dicesse di non farlo. Non ho potuto dire no al Barcellona, la storia del club e il privilegio che provo nell’indossare questa maglia è ciò che mi ha fatto cambiare decisione, non lo avrei fatto per nessun altro club. Sono qui per vincere, non per divertirmi».
Adesso si parla di rinnovo e sembra la cosa più normale del mondo: «Ciò che più di ogni cosa mi rende felice a Barcellona è l’emozione associata al bel calcio: una sensazione completamente diversa da quella a cui ero abituato. Alla Juventus ci si concentra principalmente sul raggiungimento dei risultati: qui al Barcellona, invece, c’è una gioia pura che contagia tutti». Se di mezzo non ci fosse uno come Szczesny, potremmo addirittura pensare che tutto andrà secondo copione.