Esistono i piani alti del tennis, quelli che in questo momento si trovano a Miami per la seconda tappa del Sunshine Double, nove milioni di montepremi, mille punti Atp in palio, star di Hollywood sugli spalti, cuoricini e sorrisoni, floridissima Florida. Il Tour al suo meglio è tutto lì in queste settimane. Lo chiamano “Tennis Paradise” ed effettivamente questo è quello che sembra dai reel di Instagram e dalle dirette televisive. Il paradiso di chi crede che il tennis sia in grande parte anche uno spettacolo a beneficio del pubblico, lacrime e party, entertainment e sudore tra palme, Hard Rock Stadium e passerelle. A 8515 chilometri da Miami ecco Napoli, in particolare il Tennis Club sul lungomare di Viale Dohrn che in questi giorni ospita un torneo del circuito Challenger che avrà come wild card il tennista svizzero Stan Wawrinka, ex numero tre del mondo oggi con un ranking a tre cifre davanti al suo nome e zero vittorie nei tabelloni principali nella prima parte del 2025. Lo stesso Stan Wawrinka tra qualche giorno, il 28 marzo, compirà quarant’anni.
«Il tennis è tennis dappertutto»
La malinconia è forse il primo pensiero che viene in mente, seguito subito dopo da tenerezza e da quella frase sempre in agguato quando guardiamo le leggende invecchiare davanti ai nostri occhi, con un epilogo non all’altezza di ciò che sono stati: «Ma insomma Stan, che ci fai ancora qui? Non sono meglio certi ricordi rispetto a questo presente?».
La realtà è però semplicissima e non ha nulla a che vedere con il rifiuto del tempo che passa, il masochismo o l’ostinazione patologica propria dei campioni incapaci di dire addio. La realtà è la seguente ed è stato lo svizzero a rivelarla in un pomeriggio in cui a Napoli sembra primavera inoltrata, il giorno dopo il suo arrivo in città (il primo ad arrivare tra i partecipanti al torneo e anche questo dettaglio la dice lunga su cosa significa essere stato un top 5). «Il tennis è tennis dappertutto», dice Wawrinka a Undici. «Appena sono arrivato al club ho visto quattro soci che giocavano un doppio. Non è tennis anche quello?».
La polvere e gli altari. Non è da tutti giocare allo stesso modo da una parte e dall’altra, nella capitale momentanea del tennis e nella sua periferia, come se non ci fosse alcuna differenza. Perché effettivamente, ridotto all’estrema sintesi, togliendo la splendida cornice, la scenografia milionaria, lo show business e il montepremi, è tutto uguale, è tutto solo e soltanto tennis. Beato chi se ne ricorda.
Wawrinka e Norman, ancora insieme
Nella sua prima sessione di preparazione, Stan Wawrinka è il primo ad arrivare al circolo, due ore di allenamento su un campo Centrale ancora in fase di allestimento. A Napoli, sugli stessi campi, aveva giocato per la prima volta vent’anni fa, era il 2005, una carriera da costruire, lo chiamavano ancora con il nome per intero Stanislaw, a quell’epoca i Challenger erano un trampolino di lancio, non un estremo tentativo in assenza di alternative. Perse in semifinale contro Potito Starace, tornò a casa per la prima volta in top 100.
Da allora Stanislaw è diventato Stan the Man, all’occorrenza Stanimal, l’unico tennista in grado di vincere tre Slam nell’epoca dei Big Four, battendo in finale Rafa Nadal (agli Australian Open del 2014) e Novak Djokovic (al Roland Garros del 2015 e allo Us Open del 2016, entrambe le volte in rimonta). L’avversario che gli tocca in questi tempi spietati e senza memoria, nella prima giornata napoletana, è Mariano Tammaro, 21 anni e numero 644 del ranking, età e classifica in linea con il torneo che sta per giocare. Lo svizzero ha prenotato due ore di allenamento, dalle 14 alle 16. Alle 13.58 è già seduto sulla sua panchina, il borsone gli ricorda chi è stato: un canguro, la Tour Eiffel, la statua della Libertà, i luoghi dei suoi più grandi successi. Acqua passata? Certamente sì. Ma il tennis è tennis ovunque.
In piedi davanti a lui c’è Magnus Normann, coach nella buona e nella cattiva sorte. I due parlano poco, puliscono le righe, controllano la tensione delle corde della racchetta, studiano il rimbalzo della pallina. Stessa routine imparata a memoria in 25 anni di circuito, un quarto di secolo and still counting. Se si trovassero a Miami e dall’altra parte della rete ci fosse ad esempio Grigor Dimitrov, si comporterebbero allo stesso modo. “Cosa ti tiene ancora in campo, Stan?” Gli chiederanno alla fine, dopo due ore di allenamento, qualche rovescio lungolinea alla maniera antica, lui che alla fine di ogni set chiede all’avversario: “One more?”, ne facciamo ancora uno?
Lo svizzero sapeva che avrebbe dovuto fare i conti con questa domanda, forse ci fa i conti ogni giorno. Dieci anni, fa più o meno di questi tempi, aveva sconfitto uno dopo l’altro Roger Federer e Novak Djokovic a Parigi prima di conquistare uno dei tre major della sua carriera. Nel frattempo, Federer si è ritirato, Djokovic, pur invecchiato, continua ad essere il numero cinque al mondo (lui sì che ha giocato a Miami). La verità è che è tutto meno doloroso e meno maniacale di quanto sembri. »Quando smetterò di giocare sarà per sempre, e non saranno possibili ripensamenti. Il fatto è che a me questo sport piace ancora tanto: il pubblico che guarda e applaude, l’atmosfera che si respira in campo, qualsiasi campo». Stan Wawrinka ha ribaltato la domanda, invece del perché, si è chiesto perché no.
Leggi anche
La vita squattrinata dei tennisti di bassa classifica
La solitudine del tennista
Nel febbraio del 2021, mentre i suoi colleghi erano a Melbourne impegnati nel primo Slam stagionale, l’Australian Open, Andy Murray si trovava a Biella, in Piemonte, dentro un palazzetto adibito a palestra e per l’occasione trasformato in un campo da tennis per partecipare a un torneo del Challenger Tour, il circuito in cui, come ha scritto Conor Niland, ex tennista irlandese ex numero 190 del mondo e autore di The Racket «i giocatori cercano di fare la cosa giusta mentre nessuno, letteralmente nessuno, li guarda». Dal centrale di Wimbledon al PalaPaietta, tutto pur di sentirsi ancora un giocatore di tennis, tutto pur di rimandare ancora per un po’ il momento in cui cala il sipario su una carriera, la tua. O almeno provarci.
Il tentativo è comunque degno di nota e di affetto e di riconoscenza da parte degli affezionati allo sport. Dismettere i panni del campione Slam e ritornare a far parte della moltitudine che popola il gradino più basso del professionismo, scendere nella giungla e sporcarsi le mani con la consapevolezza, come nel caso di Wawrinka, che di nuovo lassù non ci tornerai, non accadrà più, e allora perché lo fai? Non è meglio la nostalgia? E però eccoti in campo, a sudare come un tempo con l’energia che ti è rimasta che è poca ma comunque non ti impedisce di accettare la wild card e di fare tutto il possibile per provarci. Provare a fare cosa? Ad essere quello che sei sempre stato.
Stan Wawrinka non vince un torneo di tennis dal 2017 (l’Atp 250 di Ginvera). Da allora sono passati otto anni. Prima di allora aveva conquistato 16 titoli, 578 vittorie in carriera, 367 sconfitte. Quasi mille match sulle spalle. Sembrano troppi e invece sono sempre troppo pochi.Dalla vittoria del Roland Garros junior del 2003, ventidue anni di tennis e di poco altro, soldi e gloria per permettergli di stare tranquillo, di non avere rimpianti e vivere in pace.
E invece Napoli, tennis di serie C, un Challenger che mette in palio per il vincitore 125 punti Atp e 25 mila dollari, terra rossa che significa da sempre soffrire e sudare, la parolina ex che incombe davanti al tuo nome e cognome, la paura di ciò che ci sarà oltre quell’ex, se ci sarà qualcosa, se tornerai ad essere Stan e basta, senza più riferimenti al tennis e all’uomo che sei stato fino a ieri. Ed è per questo che sei arrivato un giorno prima di tutti gli altri, per questo pulisci le righe del campo con la stessa meticolosità con cui l’hai fatto in finale a Parigi dieci anni fa, per questo chiedi al tuo avversario di giocare ancora un po’, accetti il rischio di sentirti ridicolo, vecchio, un campione retrocesso, un quasi quarantenne con una testa che comanda e un corpo che non riesce più a rispondere. Il tennis è tennis ovunque. Vengono in mente le parole di Dino Zoff quando parlava di Francesco Totti e della sua incapacità di dire addio: «Lasciatelo giocare in pace. È così bello quello che succede in campo. E dura così poco».