Quanto saremmo disposti a pagare di tasca nostra affinché il calciatore migliore del mondo venisse ingaggiato dalla squadra per cui facciamo il tifo? Questa domanda filosofica e sentimentale è il codice segreto di U.S. Palmese, il nuovo film dei Manetti Bros al cinema da giovedì 20 marzo. Un dilemma che alimenta una favola, un viaggio polveroso dalla piccola Palmi fino agli studi di Sky Sport e alla finale di Champions League, un evento in mondovisione a cui partecipare nella maniera meno banale possibile. U.S. Palmese è un racconto felice con i toni della commedia, un film che prova, dietro la risata, ad affondare nelle radici profonde dei sentimenti complessi che regolano il mondo del calcio e del tifo. Il rapporto spesso tormentato tra talento e rendimento, l’amore per il gioco da parte di chi lo ha fatto diventare un mestiere, il senso di appartenenza di persone che sacrificano tutte le domeniche di una vita per seguire una squadra di Eccellenza.
Don Vincenzo – un claudicante e malinconico Rocco Papaleo – decide di bussare alla porta di tutti i suoi concittadini per chiedere una donazione in modo da poter ingaggiare Etienne Morville – Blaise Alfonso, un mix tra le movenze eleganti di Leão e le treccine di Moise Kean. Morville è una stella del calcio francese che si è perso tra la fama, la bella vita e un nervosismo che lo ha messo ai margini della Serie A, tra squalifiche e prestazioni tristi. Il sogno di Don Vincenzo è quello di tutti noi, una parabola sentimentale che ai muove tra i campi polverosi di Palmi, una parabola di vita che prova a riscattarsi attraverso il calcio.
Il calcio al cinema
Le scene con il pallone sono fondamentali in questo film, e così i Manetti si sono affidati a tre consulenti scelti appositamente per gestire quello che sul grande schermo diventa spesso un problema. «Da grandi amanti di Fuga per la vittoria», spiega Antonio Manetti, «abbiamo capito che in scena ci vogliono dei calciatori veri. Non avevamo a disposizioni giocatori di Eccellenza, che abbiamo scoperto essere fortissimi, hanno sempre eseguito alla perfezione quello che chiedevamo. Il problema era come muoverli visto che noi siamo registi e non allenatori. Così abbiamo cercato delle figure che fossero vicine al mondo del calcio e a quello del cinema. Arturo Calabresi (23 presenze quest’anno al Pisa dopo una carriera partita alla Roma e proseguita tra Brescia, Bologna e Lecce, ndr) era la sintesi perfetta di tutto questo: oltre a essere un calciatore professionista è il figlio di Paolo Calabresi e sua sorella recita una parte nel film. Conosce benissimo il mondo del cinema e quindi sa parlare la nostra stessa lingua. Insieme a lui abbiamo preparato le partite e avremmo voluto anche venisse sul set ma ovviamente non poteva. Con noi c’era Giulio Rosati, che in gioventù giocava proprio con Arturo e che adesso fa il regista di documentari. Lui e Michelangelo Ienco – viceallenatore della Palmese – ci hanno aiutato a mettere in pratica quello che avevamo in testa».
Marco approfondisce ancora di più la questione, illustrando un metodo di lavoro nuovo per questo genere di scene: «Noi abbiamo creato delle partite vere, costruendole dal primo al novantesimo e condensandole in dieci minuti. Soprattutto l’esordio contro il Vigor Lamezia e il derby contro la Gioiese: sono match che esistono davvero, compressi in un tempo limitato. Poi ci siamo soffermati con il racconto sugli episodi cruciali. I giocatori sono stati bravissimi perché le ripetevano allo stesso modo mentre noi cambiavamo le inquadrature».
Se rappresentare plasticamente il calcio – e renderlo non solo visibile, ma anche vero – è il primo problema di ogni film sportivo, quello immediatamente successivo riguarda la scrittura. Parlare di calcio in Italia è difficile su ogni tipo di mezzo, dai giornali ai social, figurarsi dentro un’opera di fantasia, a tratti surreale. Si rischia sempre di cadere nel pozzo della retorica in un senso o nell’altro. «Secondo noi il cinema può parlare di tutto», attacca convinto Marco, «ma dipende tutto dal film. Abbiamo studiato il fenomeno calcio, visto che si dice sempre che questo tipo di pellicole non vanno mai tanto bene. Il calcio gode di uno strano pregiudizio, c’è tantissima gente che vede questo film e mi dice “mi è piaciuto tantissimo nonostante non mi piaccia il calcio”. C’è sempre bisogno di fare un distinguo tra chi ama e chi odia il calcio. Bisogna vincere una barriera ma l’importante è che si racconti un’esperienza umana e universale».
Un parallelo tra U.S. Palmese e Ted Lasso
Ted Lasso ha lasciato un segno indelebile nella narrazione sportiva portata avanti al cinema e nei progetti seriali – a proposito, Apple TV ha annunciato da pochi giorni una quarta stagione. Ma forse la serie è piaciuta di più a chi non ama il calcio che ai tifosi. E l’atmosfera di U.S. Palmese ricorda proprio la serie ambientata in Premier League, con le sue esagerazioni, le sue pause e i suoi tempi comici. «Io sono un fan di Ted Lasso», racconta Antonio, «e questo film ha uno spirito che gli si avvicina. Vedendo la serie mi sono anche rinfrancato pensando che avremmo potuto fare le scene di campo un po’ meglio. Certo loro dovevano riprodurre la Premier League e noi l’Eccellenza calabrese, ma abbiamo anche fatto un pochino della finale di Champions».
«Da appassionati di sport», lo incalza Marco, «noi soffriamo quando il cinema non riesce a rappresentarlo al meglio. Così ci siamo detti che volevano misurarci con questa sfida. Certo, nel nostro film ci sono le esagerazioni della commedia ed è normale. Abbiamo avuto due riferimenti principali: Fuga per la vittoria, come detto, e gli anime giapponesi che hanno un rapporto perfetto con lo sport perché lo rappresentano in modo non realistico ma corrispondente. Qualche giorno fa ho rivisto su YouTube le immagini di Italia-Germania del 2006 e il gol di Del Piero mi ha impressionato. Un tiro strabiliante, ma chi non è appassionato di calcio non ne comprende il valore. Visto che il film doveva essere diretto a tutti abbiamo dovuto esasperare alcuni dettagli per dare la giusta importanza ai gesti tecnici».
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A parte il gran consiglio del paese che dipinge alcune scene divertenti seduto ai tavolini di un bar con Massimiliano Bruno, Gianfelice Imparato e Massimo De Lorenzo, i calciatori della Palmese che ruotano attorno a Morville sembrano personaggi di un fumetto, caricature di se stessi che non cadono mai nella forzatura, ma rendono alla perfezione l’atmosfera da calcio di paese. Persone che diventano miti e leggende popolari anche solo per aver segnato in un derby d’Eccellenza, bomber con la pancia, portieri che fanno i pescatori, gente che lavora tutto il giorno e la sera prova a fare il calciatore spinto da un paese intero. La parabola di Morville invece ricorda un po’ quella balotelliana, pur con doverosi distinguo, ma al centro di tutto resiste la sensazione di veder giocare qualcuno che non ama più il calcio, proprio come troppo spesso in questi anni è accaduto con Super Mario.
«Balotelli non è stata un’ispirazione visiva ma emotiva», spiega Marco. «Lui come tutti quei calciatori a cui sembra che il calcio non piaccia più. Ci siamo chiesti come sia possibile che persone che ci giocano così bene abbiano potuto smettere di amarlo. Attorno a questi ragazzi c’è così tanta pressione, ci sono così tanti soldi che l’individualismo prendere il sopravvento e loro non riescono più a ritrovarsi. C’è molto di Balotelli dentro Morville ma anche un po’ di Gascoigne, di Cantona e pure di Cassano».
Palmi, la Calabria, la Roma
U.S Palmese è una storia anche molto connotata dal punto di vista territoriale. L’entroterra calabrese ne diventa subito un personaggio, con la routine immancabile prima mal sopportata e poi quasi vista con tenerezza da Morville, con i campi polverosi e senza erba, con un ospedale dismesso che ha bisogno di fondo per essere riaperto, con il dialetto e l’accento palmisano che diventano parte integrante anche della sceneggiatura. Marco Manetti durante tutta l’intervista indossa la maglia neroverde della Palmese con il dieci sulla schiena e il nome U Giganti, il soprannome di Morville, diventato figlio adottivo di tutta Palmi.
«Nostra madre è nata a Palmi», spiega Antonio, «siamo stati attentissimi all’accento. Come abbiamo avuto un coach per il calcio, abbiamo avuto anche un coach di dialetto palmisano. Cristoforo Bovi, che recita anche nel film, ci ha aiutato molto. Sia prima delle riprese incontrando gli attori e poi con delle sessioni su Zoom. Ha registrato le battute che Papaleo e gli altri potevano ascoltare prima di andare in scena. Siamo stati molto attenti, è un lavoro delicato e difficile. La Calabria è grande, e ogni città cambia inflessione. Palmi è nello stretto, e il dialetto è più simile al messinese che al cosentino. Non può essere mai perfetto ma è uscito fuori in maniera molto credibile».
Il trailer
Da registi a calciatori, da registi a tifosi, da registi ad appassionati. Antonio e Marco sono due fini osservatori del calcio e di quello che accade intorno ma anche tifosi. La loro grande passione però travalica i confini italiani e arriva fino agli Stati Uniti. «Io gioco ogni tanto con gli amici ma non sono bravo, confessa Antonio. «E alle medie ho fatto anche un provino per una squadra ma non sono stato preso. Più che altro ho giocato a basket e baseball. Io più che il calcio guardo la Roma, sono più un tifoso che un appassionato del gioco». «Quando ci sono le partite tra amici», sorride Marco, «io faccio l’arbitro e già mi manca il fiato, oppure lo spettatore». La loro più grande passione però è per il football americano. «Immagina una partita a scacchi con dentro dei gesti atletici pazzeschi», spiegano praticamente in coro. «Il football è lo sporto più bello del mondo mentre dietro c’è il calcio. Quello che rovina il calcio è il contorno. Qualche settimana fa l’Empoli ha battuto la Juve e il Bologna ha battuto il Milan. Nessun mezzo d’informazione ha sottolineato queste imprese, due favole bellissime ma tutti si sono concentrati sulla caduta delle grandi. Questa narrazione è qualcosa che frena la bellezza dello sport».
Niente spoiler, ma il finale di U.S. Palmese ha la capacità di sorprendere e intenerire in una maniera per niente banale e in qualche modo inaspettata. Un oooh di meraviglia che rende questa favola universale, e da Palmi la porta in un luogo che esiste davvero in ogni angolo d’Italia e non solo: il cuore dei tifosi. Torna la domanda che muove il film a cui Antonio e Marco Manetti rispondo convinti in coro: ma se vi chiedessero di pagare per portare una grande campione a vestire la maglia della vostra squadra del cuore, voi accettereste? «Certo che sì». Come dargli torto.