Da qualche mese l’aria sembra più sottile a Miranda de Ebro, c’è un senso di festa e allegria. Questo piccolo centro industriale all’incrocio dei venti tra Castiglia e León, Paesi Baschi e La Rioja, non è una città da cartolina: è un paese di ferrovieri, un luogo di passaggio, più spesso che destinazione. Miranda de Ebro non ha il fascino monumentale di Burgos o il prestigio culturale di Vitória. Ma ha un’anima di confine, fatta di transiti e lavoro, di fabbriche e binari. E un cuore che batte sempre più forte per il calcio: Il Mirandés, la squadra che porta il nome della città nei campi di Spagna, le sta facendo scoprire l’orgoglio di non sentirsi più solo una stazione intermedia.
A guidare il Mirandés da un anno e mezzo c’è un allenatore romano di 39 anni. Si chiama Alessio Lisci. Se amate il calcio e non avete ancora sentito parlare di lui, è il segno che qualcosa non torna: Lisci è il protagonista di una cavalcata esaltante e senza precedenti, per la storia sportiva del club. Il Mirandés, infatti, è primo in Segunda División, la Serie B spagnola, quando mancano 12 giornate alla fine del campionato. Da quando è stato fondato, nel 1927, il club della provincia di Burgos non ha mai giocato in Liga. È la squadra con il budget più basso della categoria, nella sua rosa 17 giocatori su 25 sono arrivati in prestito da altre società spagnole. Il valore complessivo dei loro cartellini, fonte Transfermarkt, è di 10,5 milioni di euro. Eppure il Mirandés l’anno prossimo rischia di giocare contro il Real Madrid di Kilian Mbappè, che con il suo ingaggio quella cifra la consuma (da solo) in meno di 150 giorni.
Un piccolo, piccolissimo club
Quando Lisci si è ritrovato con la squadra per il ritiro erano in quattro. Quando hanno iniziato il campionato, invece, erano undici più due portieri: la panchina è stata riempita dai giovani della seconda squadra. In pratica, il Mirandés ha saltato a piedi pari la preparazione. La struttura societaria è ridotta all’osso, lo staff tecnico non ha uffici e allena direttamente in spogliatoio. I viaggi per le trasferte si fanno in pullman, mai in charter, a volte durano sette-otto ore. Tutto ha una dimensione precaria – di passaggio, appunto – ma anche romantica e familiare. C’era solo un obiettivo stagionale, scritto nella pietra del Mirandés: provare a salvarsi, a mantenere la categoria. E invece, in questo momento, Lisci e i suoi giocatori guardano tutti dall’alto.
Lisci plasma il sogno di Miranda e lo vive con la serenità di un veterano, una calma irreale per un giovane allenatore al primo, grande punto di svolta della sua carriera. In questo paese di passaggio è planato un anno e mezzo fa: «Ero fermo da una stagione», racconta a Undici. «Mi ha chiamato il loro direttore sportivo ed è stata una sorpresa, non lo conoscevo. Ho detto sì e la città mi ha conquistato subito. Avevo sempre vissuto in metropoli come Roma, Barcellona, Valencia. La dimensione che ho trovato qui è speciale, straordinaria». Gli abitanti di Miranda sono 35mila e «il 10% di loro viene regolarmente allo stadio», spiega sorridendo Lisci. «Se ci pensi, è una percentuale incredibile, è una città che vive per il calcio».
Da dove arriva Alessio Lisci
Alessio Lisci è romano del centro, figlio di un pugliese delle Tremiti. Quando ha lasciato l’Italia era poco più di un ragazzo: «Ho studiato Scienze motorie all’Università del Foro Italico, la mia prima esperienza di lavoro è stata da preparatore nelle giovanili della Lazio. Quando avevo 23 anni ho vinto una borsa di studio per un tirocinio e sono venuto in Spagna. Pensavo di rimanere sei mesi, non sono più tornato». Lo chiama il Levante, inizia così una lunga scalata. In quattro anni ottiene il patentino da allenatore Uefa Pro, in società parte dai bambini dell’Under 10, diventa allenatore in seconda della squadra B, sale gradualmente fino al ruolo di vice della prima squadra.
Poi il botto: nel 2021/22 la stagione del Levante è un disastro, è in Liga ma perde sempre, saltano due allenatori in pochi mesi. Tocca ad Alessio. Dovrebbe essere solo un traghettatore, un Caronte a tempo determinato che guida il gruppo verso una lenta retrocessione inevitabile, senza emozioni. Invece Lisci sorprende, il Levante cresce, fa punti, si toglie sfizi impensabili: vince al Wanda Metropolitano con l’Atlètico Madrid, batte il Villareal che ha appena eliminato la Juventus dalla Champions. Questi risultati incredibili non bastano per centrare il miracolo salvezza (anche se nel girone di ritorno, sotto Lisci, il Levante ha la settima media punti del campionato), ma dovrebbe essere più che sufficiente per essere confermato alla guida dei valenciani. Non è così, la società fa altre scelte. Lisci resta senza panchina.
«Da ogni esperienza bisogna sforzarsi di trovare una chiave positiva. Ho avuto un anno per studiare, crescere, aggiornarmi. Ho girato tanto. Sono stato a visitare Vincenzo Italiano durante il precampionato della Fiorentina e nei mesi successivi sono andato a trovare Spalletti, Ancelotti e Iraola». Quindi la chiamata del Mirandés. «L’anno scorso eravamo partiti alla grande, a metà stagione eravamo in zona playoff, ma la sessione di mercato invernale e gli infortuni hanno indebolito la squadra. Alla fine ci siamo salvati e abbiamo centrato l’obiettivo. Qui è sempre stata la salvezza, stop». Quest’anno è arrivata a metà stagione, ora nessuno vuole svegliarsi dal sogno.
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Perché in Italia si parla poco di Alessio Lisci? In un dibattito sul calcio intossicato, dove si costruiscono e si distruggono santini di allenatori nel giro di settimane o mesi, il suo nome gira ancora pochissimo. Lui risponde con una scrollata di spalle: «Non lo so, non sta a me valutarlo. Non sono bravo a pubblicizzarmi, sono una persona riservata. Mi piace allenare, stare in campo. Nel calcio la visibilità conta molto, però se semini bene, prima o poi i frutti li raccogli». Si sente pronto a diventare un po’ più “paraculo”? «Non cambierò il mio modo di essere, non credo ce ne sia bisogno. Se devo fare rumore è per i risultati, non per altro».
Nel dibattito caricaturale tra giochisti e pragmatici, Lisci non vuole collocarsi: «Sto nel mezzo tra le due filosofie, ma sono categorie che significano poco. È ovvio, se giochi bene è più facile vincere, ma un approccio estremo non aiuta mai. Un allenatore deve essere bravo a ricavare il massimo dalle risorse che ha». In ogni caso, Lisci non si è mai potuto permettere chissà quali scelte: «La prima esperienza da allenatore professionista è stata con una squadra praticamente già retrocessa, poi sono arrivato al Mirandés dove si lavora quasi solo con i prestiti. Le risorse sono poche, si fa con quello che c’è. All’inizio di questo precampionato eravamo in quattro».
E quando finalmente avrà il lusso di scegliere? «A me piace un calcio aggressivo, il pressing alto, controllare il pallone e tenere l’avversario nel suo campo, ma non si può fare sempre. L’anno scorso avevamo giocatori di talento in trequarti, molto veloci, a inizio stagione giocavamo un bel calcio col 4-2-3-1. A febbraio la squadra è cambiata e ho dovuto adottare un altro sistema, abbassando il baricentro».
Come gioca il Mirandés
Ora il Mírandés capolista gioca con il 3-5-2, ha iniziato con la difesa bassa (e un gruppo tutto da costruire), ma in poche settimane la squadra si è alzata sil campo e non solo, ha trovato risultati, fiducia, coraggio. Le “stelle” sono Joaquin Panichelli (centravanti argentino in prestito dall’Alavés), Alberto Reina (il “10”, uno dei pochissimi giocatori di proprietà del Mirandés, che va in scadenza a giugno) e Jon Gorrotxategi (mediano di proprietà della Real Sociedad). «Ma fare i nomi di qualcuno in particolare», dice Lisci, «sarebbe limitante: è la rosa che sta facendo una grandissima stagione, se qualcuno sta sotto ai riflettori è davvero merito del gruppo”.
Resta l’ultimo miglio da percorrere, il più difficile. La classifica è corta, il miracolo della Liga è lì, incredibilmente a portata di mano. Il futuro del Mirandés e di Alessio Lisci è tutto da scrivere. «Mi godo il momento», conclude il tecnico italiano. «Sono concentrato sul finale di stagione. Mi prendo la bellezza delle persone che ti fermano per strada e sono piene di orgoglio. Ci sarà tempo per pensare a quello che viene dopo».