Per Koopmeiners sopportare le critiche non è un problema

Il centrocampista della Juventus ha sempre lavorato sulla componente mentale del suo gioco.

Forse il segreto sta tutto in quel nome, Teun. In olandese vuol dire combattente, guerriero, colui che non si arrende. Come se fosse strano segno del destino, fin da subito Koopmeiners ha dovuto tenere fede al suo appellativo. Nel darglielo mamma e papà, però, non si immaginavano quante cose avrebbe dovuto affrontare nella vita. Se si pensa che le ultime settimane siano state il periodo più duro mai vissuto dal centrocampista della Juventus, ci si sbaglia. Perché, di sfide, il combattente Teun ne ha dovuto fronteggiare tante fin da ragazzo. La più dura è stata contro la malattia. La mamma e la fidanzata colpite da un tumore, più o meno nello stesso periodo.

Lo ha raccontato lo stesso Koopmeiners qualche anno fa in un’intervista al giornale olandese de Volkskran insieme al padre Remco. «Avevo 13-14 anni quando mia madre si è ammalata, capivo che qualcosa non andava. Ma non volevo saperlo, non sapevo nemmeno cosa fosse davvero il cancro» ha spiegato lo juventino. «Era la seconda volta che mia moglie si ammalava gravemente», ha rivelato Remco, «la ricomparsa del cancro è stata una grande delusione. Abbiamo insistito per avere una seconda opinione, e questo ha fatto la differenza. Siamo finiti all’ospedale Anthoni van Leeuwenhoek. Abbiamo sempre parlato chiaro con i nostri figli. Abbiamo stilato un piano, organizzandosi passo dopo passo e non lasciando spazio al panico», ha ricordato, confessando però come fosse molto difficile per Teun trovarsi «a tavola con due donne che indossavano il velo a causa della chemioterapia». Un’esperienza che lo ha fortificato, come lui stesso ha ammesso: «Sono diventato più adulto più velocemente. Un’amica di mia madre mi disse un giorno: puoi anche lamentarti ogni tanto».

Anche con il calcio non è sempre stato tutto chiaro dall’inizio. A vedere il cv non sembrerebbe; capitano dell’AZ Alkmaar a 21 anni, vincitore dell’Europa League con l’Atalanta a 26, ora punto fermo della Juventus. Eppure nelle giovanili del club olandese non giocava e aveva problemi con l’allenatore, Caspar Dekker. «Usava dei termini assurdi», si è sfogato «non avevo idea di cosa volesse dire, mi sentivo frustrato e spesso tornavo a casa con le lacrime agli occhi». A consolarlo ci pensava papà Remco, professore di educazione fisica alla Hogeschool di Amsterdam e psicologo sportivo. Da ex giocatore di baseball (sport praticato anche da Teun) ha capito quanto la mente potesse influenzare il corpo. Per questo lo ha iscritto a un corso di programmazione neurolinguistica (PNL) per giovani. La PNL è un insieme di tecniche e modelli psicologici che mirano a migliorare la comunicazione, la crescita personale e il cambiamento comportamentale, basandosi sull’idea che esista una connessione tra i processi neurologici, il linguaggio e i comportamenti che mettiamo in atto. Quella di Remco è stata una decisione mirata. Era la stessa disciplina che aveva studiato Dekker e con cui insegnava ai ragazzi dell’Az. In questo modo Koopmeiners ha potuto meglio comprendere un lessico e linguaggio specifico, entrando finalmente in sintonia con il suo coach. Tutta quella negatività che lo aveva persino fatto pensare a un ritiro era sparita di colpo.

Lavorare sulla propria tenuta mentale ha aiutato Koopmeiners anche a livello tecnico. Non è un caso, infatti, che sia un attimo rigorista. Dei 43 penalty calciati in carriera ne ha segnati 36, l’83%. Un’abilità affinata con tanta pratica ma anche scaricando un po’ di stress. «Nel campo vicino a casa a Castricum», ha svelato Remco «ci siamo allenati diverse volte. Chi sbagliava andava in porta. Bisognava rendere automatico il gesto, così che poi in partita Teun e Peer andassero a calciare in maniera naturale». Già perché quella dei Koopmeiners è una famiglia di calciatori. Peer, due anni in meno di Teun, ha sempre ribadito quanto siano diversi caratterialmente, ma il loro percorso sportivo è stato identico. Accademy dell’AZ, esordio in prima squadra e titolarità conquistata quasi subito. Anche il ruolo è molto simile. Peer, infatti, gioca a centrocampo, davanti alla difesa, con un raggio un po’ più arretrato rispetto all’8 bianconero.

I primi mesi a Torino per Koop non sono stati come se li sarebbe aspettati. In estate c’è stato lo strappo con l’Atalanta: lui voleva andar via, la società, in disaccordo, lo ha messo ai margini. Di contro l’olandese si è praticamente rifiutato di allenarsi, allegando una serie di certificati medici. Una tensione che ha portato a una sorta di stallo alla messicana, risolto solo dall’intervento di Giuntoli e della Juventus negli ultimi giorni di mercato. Un sospiro di sollievo per Koopmeiners che desiderava da tempo vestire in bianconero. In Olanda guardava le partite di Zidane e a pochi giorni dal suo arrivo conosceva già tutti gli angoli della Continassa, grazie alle dritte di De Ligt. Pareva il giocatore perfetto per il sistema di Thiago Motta, il trequartista di rottura che potesse agire tra le linee alle spalle del centrocampo avversario. Un po’ come lo era stato Ferguson a Bologna nella passata stagione. Il ruolo poi non doveva essere un problema, dato a Bergamo Gasperini lo aveva utilizzato in quella porzione di campo. Eppure era la funzione che cambiava. L’allenatore nerazzurro chiedeva molta più verticalità, mentre a Motta il trequartista serve per raccordare, dialogare con il centrocampo e aprire sull’esterno. Compito più complicato, specialmente quando ci si trova davanti a un blocco basso. A ottobre, poi, è arrivato l’infortunio alla costola che gli ha fatto saltare tre settimane, togliendogli ritmo quando stava cominciando a entrare nel sistema bianconero. «Ho passato dei giorni difficili», ha ammesso in una chiacchierata con Tuttosport «facevo fatica a respirare».

Confrontando le sue statistiche tra questa e la scorsa annata si nota un calo per gol attesi, assist attesi e passaggi progressivi (quelli in avanti di almeno 10 metri verso la porta) sia a livello generale che di media per partita. Curioso, però, che soprattutto in alcuni match come nel derby contro il Torino e all’andata contro l’Atalanta, l’olandese abbia corso tantissimo, aggirandosi intorno ai 13 e 14 km. Corse lunghe e faticose, quindi, ma spesso inutili, fuori dal gioco, come testimoniano i soli 39 tocchi nell’1-1 di Bergamo a gennaio. L’emozione di tornare in uno stadio che lo aveva visto protagonista fino a pochi prima e di giocare davanti a un pubblico con cui non si era lasciato benissimo non possono giustificare una tale difficoltà. La sensazione  è che Koopmeiners non sia stato finora il go to guy, il giocatore differenza, ma che facesse una grande prestazione solo quando la squadra girasse. E viceversa. Una riprova si è avuta nell’eliminazione contro l’Empoli in Coppa Italia, dove è stato tra i calciatori più fischiati dell’Allianz Stadium. Contestazione proseguita anche nel Monday night contro il Verona, in cui è entrato dalla panchina. Fuori dai titolari per una scelta puramente tecnica di Motta, era la prima volta che gli accadeva in campionato.

 

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Il centrocampista, però, è riuscito trasformare i mugugni, ben udibili al momento del cambio con McKennie, in applausi, tornando al passato, con uno dei suoi letali inserimenti. Destro rasoterra sul primo palo e 2-0 a scacciare ogni possibile illusione di rimonta dell’Hellas. Impossibile trovare miglior occasione per lanciarsi verso la sfida al suo passato, all’Atalanta e a Gasperini che ne conosce a memoria pregi e difetti e che per lui avrà sicuramente pensato a una marcatura particolare. Ma alla tattica almeno per adesso è meglio non guardare, meglio vedere il bicchiere al bicchiere mezzo pieno e alla fiducia ritrovata. Una conquista “facile” per uno che porta il nome di un soldato, viene soprannominato Robokop e che quella corazza, degna del supereroe, se l’è costruita nel corso degli anni.