Marcus Thuram mi è sempre sembrato uno preso bene, vorrei fare una chiacchierata a braccio con lui, senza leggere le domande. E così è stato. Thuram è un ragazzo intelligente: lo dimostra il modo in cui si è calato nell’ambiente Inter, sia a livello tattico che come parte del gruppo. È lui il primo ad ammettere che a Milano gioca nel suo ruolo, lui preferisce svariare sul fronte offensivo e se non c’è uno in area di rigore è un problema. All’Inter c’è Lautaro, nella Francia nell’ultimo campionato europeo ha giocato prima punta, da solo. E ha ammesso – nell’intervista a Cronache di Spogliatoio – che non si è trovato bene.
Il suo modello prima e consigliere poi è stato Karim Benzema. Gli ha insegnato che non deve adattarsi al ruolo ma essere se stesso, sentirsi libero di preferire la sponda o la sgroppata che porta al gol. «Non devi cambiare il tuo modo di essere numero 9, anche se nasci esterno e ti viene naturale allargarti», racconta Thuram a Cronache. In effetti quest’anno Thuram sta giocando più vicino alla porta, nessun attaccante della Serie A tocca tanti palloni in area di rigore. E soprattutto, dato esagerato, il 52% dei suoi tiri finisce in porta.
L’altro consigliere di Marcus è Thierry Henry, con il quale parla quasi tutti i giorni. Guardando ai vecchi compagni di papà Lilian, Thuram ha un rapporto stretto con Buffon – perché da piccolo voleva fare il portiere – e con Fabio Cannavaro, che dopo ogni gol gli scrive: ci fossi stato io, non avresti segnato. Marcus risponde: nonno, ti sbagli! Capite da subito che lo spogliatoio è da sempre il suo habitat naturale, come se un padre avesse un ristorante e portasse sempre il figlio a giocare in cucina, a scherzare con gli chef e i camerieri. Una volta, ai tempi di Barcellona, Marcus andò col padre al campo di allenamento ma non aveva le scarpe. Chiese chi aveva il suo numero, il 41. Gliele diede un certo Lionel Messi, che poi gliele regalò. Il giorno dopo Thuram le regalò a un amico perché aveva visto che era estasiato dalla cosa. «Per me era tutto normale, erano gli amici di papà. Solo ora mi rendo conto di quanto fosse prezioso giocare a palla tennis con Ronaldinho».
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La famiglia. Ecco: il primo pensiero è che il figlio di un calciatore nasca nel privilegio e non conosca il sacrificio. E invece, nel caso dei Thuram, papà Lilian ha quasi compensato questa condizione con la sua severità. E tutt’ora, dopo ogni partita, si riguarda i 90 minuti del figlio. «Quando le vedo con lui, le cose che ho fatto bene sono poche, quelle che ho fatto male sono tante. Un giorno, da piccolo, ricordo che papà era alla Juve. Stava parlando con un compagno. Io e Kephren gli tiriamo la maglia perché vogliamo una Coca-Cola. Lui ci sgrida, perché non si interrompe un adulto che parla. Poi prende una lattina e ci infila due cannucce. Tu a tuo figlio fai bere una lattina intera?». La gioia invece viene dalla mamma, Sandra: «Io sono come lei, mio fratello è più come papà», racconta Marcus.
Ah, poi naturalmente Thuram è cresciuto a Clairefontaine. Con Kylian Mbappe. «Io lo prendo sempre in giro», racconta Marcus, «ma lui non può, ha un anno in meno. I gradi valgono». Quando lo dice, ride. Come quando racconta di quella volta in cui andò a San Siro da giocatore del Borussia Moenchengladbach, si era dimenticato tutti i documenti e c’era il Covid. Lo steward non voleva farlo entrare. Lui ha preso il telefono e aperto la sua pagina Wikipedia. Senza sapere che poi sarebbe diventato il padrone di quel prato, quello del gol che di fatto ha portato alla seconda stella dell’Inter, quello che ha chiuso l’irripetibile derby del 20esimo scudetto nerazzurro. Strapotere fisico, ma prima di tutto vengono l’intelligenza e l’attitudine. L’intervista con Thuram è durata 23 minuti eppure, cosa che non capita con tutti i calciatori, mi ha lasciato il desiderio di uscire a cena con Marcus.