Il Real Madrid non muore mai

Modernità, ricchezza, vittorie a ripetizione: Florentino Pérez ha costruito una macchina praticamente perfetta.

Hanno fischiato chiunque, anche Alfredo Di Stéfano, forse il più grande di tutti, che se ne andò all’Espanyol mettendo in crisi generazioni di giovani tifosi. Sono il club calcistico che vale di più al mondo, ma all’alba del millennio facevano surf tra onde di debiti alte così e non sempre si sono divertiti come oggi. Sono la squadra più forte, quella che non muore mai, quella dove tutte le giovani stelle non solo desiderano andare a esibirsi, ma in qualche misura devono andare, per certificare il loro status, non solo quello tecnico. Ecco a voi il Real Madrid Club de Fútbol, l’unità di misura del calcio mondiale, nella storia, nell’economia e nei risultati sul campo: tre componenti che da dieci anni sono ormai del tutto inestricabili e hanno scavato un solco fra i merengues e gli altri. Che hanno portato la società di Florentino Pérez a sentirsi – e a comportarsi come se fosse – la padrona del calcio mondiale.

Chi ha i soldi e la storia, come il Manchester United, non ha più i risultati da un pezzo; chi vince e ha le spalle ben coperte, come il City, non ha un passato riconoscibile; e anche chi riesce a tenere ben saldi tutti e tre i cardini della porta che conduce lassù, come per esempio il Bayern Monaco, non ha quel fascino e quel respiro globale che possiedono invece nella vecchia capitale dell’impero, quella che ha dominato sul vecchio e sul nuovo Mondo, ha vissuto momenti di difficoltà, convive con un’altra entità che sa andare oltre il calcio come il Barcellona, ma adesso viaggia stabilmente nel futuro. Un giro, o anche due, davanti a tutti gli altri.

La storia della irresistibile modernità del Real inizia giocoforza con lo sbarco sul pianeta blanco di Florentino Pérez, l’uomo dei Galacticos, del record di tre Champions vinte di fila come nessuno mai, del nuovo scintillante Bernabéu con il suo immortale Miedo Escenico – la paura del palco che stritola gli avversari, ricordata costantemente dal grande ex Jorge Valdano – e dello sbarco dei giovani fenomeni, dove l’ultimo è sempre il più grande, specialmente se si chiama Kylian Mbappé e può fare ombra anche al suo compagno Vinícius Júnior, incupito per non aver vinto un Pallone d’Oro annunciato. A proposito: l’intera delegazione del Real ha disertato la cerimonia di premiazione organizzata da France Football, a fine ottobre, proprio perché il premio non era stato assegnato a Vini, ma a Rodri. Com’era quella storia del sentirsi padroni? Florentino Pérez, uno dei costruttori più influenti di Spagna con la sua ACS, vince le elezioni il 18 luglio 2000, dopo aver promesso di strappare al Barcellona – e a chi se no? – la sua stella, Luis Figo. Il Real due anni prima ha conquistato la Séptima a trentadue anni di distanza dall’ultima vittoria in Coppa dei Campioni, e poi ha vinto anche per l’ottava volta.

Quando Florentino si insedia alla Casa Blanca i debiti netti sono di 277 milioni. E per prendere Figo alla cifra di 60 milioni, che allora rappresenta un record assoluto, il nuovo presidente deve garantire il pagamento con le proprie risorse personali. L’inizio è buono, se non ottimo, perché nel 2002 arriva la Nona, quella contro l’avversario meno nobile, il Leverkusen, ma con il gol iconico di Zidane. È l’alba accecante dell’era dei Galácticos: Figo e Zidane appunto, Ronaldo il Fenomeno e Beckham, Roberto Carlos, Raúl e Casillas, gli ultimi due prodotti dalla Fábrica madridista. L’album di figurine acquistate, nessuna delle quali giovanissime, dà un primo forte impulso all’immagine di superiorità del club, anche se poi i risultati sul campo non sono quelli sperati e gli allenatori vengono esonerati con inquietante regolarità. All’arrivo di Florentino, il Real guadagna il 33% dalle tv, il 32% dallo stadio, il 26% dal marketing e il restante 9% dalle competizioni internazionali. Oggi il modello economico è profondamente mutato: stando al bilancio 2022/23, il marketing pesa addirittura per il 44%, le televisioni per il 22%, lo stadio il 18% e le competizioni internazionali il 16%.

Tutto questo conferisce stabilità economica al club, che nella sfortuna universale della pandemia ha pure avuto la buona sorte di avere il Bernabéu chiuso per lavori. Ma chi pensa che le vittorie seriali del Real, come le mitiche rimonte della Champions di due anni fa, o i suoi strabilianti successi economici, siano frutto della buona sorte, delle coincidenze o del semplice peso del suo marchio nel mercato mondiale, è fuori strada. Per Forbes il Madrid ha un valore di oltre sei miliardi di dollari, «ma secondo me valiamo molto di più», ha chiosato Pérez un anno fa all’assemblea dei soci. In dieci anni il valore del club è quasi raddoppiato (era 3,4 milioni) e quindi chi se la sente di dargli torto?

Il Real non perde una finale di Coppa dei Campioni o Champions League dal 1981, quando fu sconfitto 1-0 dal Liverpool. Sulla panchina spagnola c’era Vujadin Boskov, che poi in Italia approdò all’Ascoli prima del ciclo formidabile con la Sampdoria. Il calcio spagnolo era comunque un passo indietro, la finale di Euro 1984 fu l’unica vera botta di vita per anni. Adesso le Champions sono diventate 15, ovvero più del doppio dei primi inseguitori Liverpool e Milan. Un solco che si è ampliato proprio nell’ultimo decennio – coinciso con il digiuno europeo dei grandi rivali del Barça – grazie a quella che Jonathan Wilson, storico del calcio e giornalista del Guardian, ha chiamato «cultura dell’innovazione». È un aspetto che flirta direttamente con il nuovo capitalismo digitale, utilizzando nel modo più intelligente l’enorme patrimonio storico del club. I capisaldi della nuova era blanca sono tre: l’analisi dei dati, i ricavi e i grandi giocatori. Ma le ramificazioni di queste tre macroaree riguardano ogni settore. Per quanto riguarda le cose di campo, riveste grande importanza il lavoro dell’ex Guti, capo di un ampio gruppo di lavoro che ha il compito di scovare e ingaggiare le nuove star del futuro. Come il brasiliano Endrick, arrivato quest’anno, o il turco Arda Güler.

È questa fame di futuro, saziata dai risultati del presente, il vero segreto del Real. E anche quando subentrano, in senso negativo, i sospetti di avere tra le mani una nuova squadra di Galácticos, come accaduto dopo il rovinoso Clásico di fine ottobre perso 4-0 in casa, bisogna ricordare che il problema dei Galácticos non era solo la loro compatibilità in campo (troppi Zidanes e pochi Pavones, cioè gregari, come si diceva all’epoca), ma soprattutto il fatto che le stelle dell’epoca fossero state ingaggiate al termine della loro parabola ascendente, più per ragioni di marketing che squisitamente tecniche. Adesso al Real i campioni arrivano giovani o giovanissimi, il vero prodotto che reclamizzano è il domani. E in questo senso tutta l’era Ronaldo, inteso come CR7, è servita sia come lezione, sia come accumulo di successi, di sponsor e di ricavi.

Un altro aspetto importante è il Real Madrid City di Valdebebas a pochi chilometri dall’aeroporto di Barajas: un’area vasta tre volte Central Park dove si respira la storia blanca, ma soprattutto si vede il futuro, esattamente come succede guardando verso il nuovo Bernabéu. Non a caso anche l’erba del centro sportivo è esattamente identica a quella dello stadio, nel quale adesso l’acustica è ancora migliore: sapendo di non avere un pubblico caldissimo, Pérez ha ordinato la chiusura del tetto per creare un clima infernale nella semifinale contro il Bayern vinta a maggio con una rimonta nei minuti finali (manco a dirlo) grazie al centravanti di riserva – e grande tifoso madridista – Joselu. E l’effetto è stato molto rock.

Il complesso ecosistema è stato governato prima da Zidane e poi da Ancelotti, due saggi più simili a capitani d’azienda che ad allenatori, per la loro capacità di gestire le risorse umane, prima ancora che tecniche, e molto abili anche nel rapporto con il grande capo. Il Real si appoggia dal 2015 anche al Global Sports Innovation Centre di Madrid, co-sponsorizzato fin dall’apertura. Un misto di competenze private, pubbliche, accademiche, che guardano all’innovazione costante, senza però mai svilire la tradizione. A suo modo simbolo di un Paese, prima ancora che di una regione, di una città, o di una squadra, che gode di buona salute, anzi ottima rispetto al resto dell’Eurozona. Questo è un altro discorso, senz’altro più ampio, ma non è affatto secondario quando si pensa al Real e a Madrid come al paradiso calcistico. Se vuoi essere davvero il migliore oggi devi andare lì, dai Blancos. O accontentarti di dare loro dei dispiaceri, senza pensare di sconfiggerli mai del tutto. Perché chi ha in mano il futuro non perde mai veramente.

Da Undici n° 59