Il derby di Madrid non è una partita come le altre

Dentro un duello che non è solo calcistico, ma politico, ideologico, dicotomico.

Una cultura sportiva ossessionata da arbitraggi, regolamenti e complottismi non è appannaggio solamente dell’Italia. In Spagna, viste le forti identità ideologiche tutt’ora presenti nei club, la politica ha un’ingerenza maggiore nella sfera calcistica; basti pensare al fatto che è stato proprio il governo, tramite il “Consejo Superior de Deportes”, a dare il via libera per la registrazione di Dani Olmo al Barcellona, dopo un mare infinito di polemiche, a cui, di settimana in settimana, ne seguono sempre di nuove. E dove c’è la politica, è più facile per tutti vederci del marcio. Ciascuno si sente vittima di un complotto ordito degli altri club.

La settimana di avvicinamento al Derby di Madrid è stata un perfetto manifesto dei livelli di tensione con cui le vicende arbitrali sono vissute in Spagna. Tutto nasce una settimana prima del derby, da un fallo di Carlos Moreno su Mbappè a campo aperto durante Espanyol-Real Madrid, partita che i blancos perderanno 1-0. L’entrata è scomposta, da dietro, ci sono tutti gli estremi per l’espulsione, ma l’arbitro ammonisce. Il Var non interviene. Il club è furioso, e agisce: viene inviata una lettera di tre pagine e mezzo alla LIGA, il cui sistema viene definito “corrrotto e manipolato”. Il precedente che ha scatenato la suscettibilità del club “merengue” è quello del “Caso Negreira”, con gli 8,5 milioni di euro che il Barça – per motivi misteriosi – versò per diverse stagioni nelle casse di una società il cui proprietario era il numero due del comitato arbitri spagnolo.

Mentre Real Madrid TV, canale tematico del club che ha una vera e propria funzione politica (ben lontano dai corrispettivi italiani) manda in onda sequenze che contengono tutti gli errori arbitrali che hanno danneggiato il Madrid, l’Atleti risponde a suon di tweet satirici, brillanti e pungenti al punto giusto, scatenando l’orgoglio dei tifosi “colchoneros”, fieri di forgiarsi da sempre di un ruolo di contrapposizione al potere dei cugini. Un tweet, in particolare, diventa virale. Contiene “istruzioni basiche” per il derby, in stile Ikea: “Una buona preparazione fisica, massaggi pre-partita e analisi minuziosa del rivale”. I primi tre punti non hanno nulla di controverso. Poi, arriva l’attacco: “Utilizzare la tua TV professionale, ancora una volta, per fare pressione sugli arbitri”.

Il derby di Madrid, questa volta, inizia ben prima del fischio dell’arbitro. A dire il vero, già diverse settimane prima, dopo che non fu concesso un rigore dubbio al Celta Vigo in Coppa del Re contro il Real, Simeone, da esecutore della strategia della tensione, iniziò a punzecchiare i cugini circa i presunti favori arbitrali di cui godono da sempre: «Non so di cosa vi sorprendete. È sempre stato così». La replica di Ancelotti, puntuale e piccata, fa riferimento alle due finali di Champions vinte proprio contro l’Atleti del Cholo: «Hay espinas que duelen», ci sono spine che fanno male. La battaglia dialettica tra i due allenatori, aggiunta alla possibilità che le due squadre, oltre alla Liga, si incontrino anche in semifinale di Coppa del Re e agli ottavi di Champions (se il Real dovesse passare col City, le probabilità sarebbero del 50%), fanno tornare alla memoria il 2011, l’anno dei quattro “Clasicos” in diciotto giorni tra Mourinho e Guardiola.

Fuori dal Bernabéu, a poche ore dal fischio d’inizio, la tensioni della settimana sembrano essersi assopite. Un tramonto rosato, con le solite nuvole basse che contraddistinguono la capitale spagnola, fa da sfondo a quella navicella spaziale fatta di fasci di metallo a spirale che è il nuovo Bernabeu, un monolite in stile “2001 Odissea nello spazio” attorno al quale si radunano folle di accoliti pronte a dedicarsi al culto calcistico. Il clima, come sempre, è rilassato: tanti turisti orientali, birrette Mahou e tapas nei bar limitrofi allo stadio. A differenza del derby di Milano, non c’è la consueta commistione di tifosi rivali intorno allo stadio, ma il motivo è presto detto: ai tifosi dell’Atleti è concesso uno spicchietto risibile in un angolino all’ultimo anello, il resto dello stadio è tutto per i blancos. La curva, che un tempo componeva il caldissimo (e controverso) “Fondo Sur”, non entra più allo stadio da ormai dieci anni, espulsa per decisione di Florentino Perez in seguito a tensioni che portarono addirittura alcuni ultras a deturpare la tomba della moglie defunta del presidente. Si trovano, però, fuori, prima delle partite, a incitare la squadra quando arrivano i pullman. Dentro lo stadio, al loro posto, ci sono dei soci approvati dal club che compongono una curva di fatto gestita dal club stesso, subordinata a rigide regole e limitazioni.

Nell’aria aleggia una netta impressione: al primo episodio arbitrale controverso, lo stadio farà esplodere tutta la rabbia accumulata nel corso delle recenti settimane. Da entrambe le parti, tutta l’attenzione è stata posta sui vertici arbitrali, come se la partita di calcio fosse marginale, e a contare davvero fosse solo il giudizio delle singole situazioni di gioco da parte dell’arbitro. Alla lettura delle formazioni, arriva il primo vomito d’odio del Bernabéu, uno stadio aristocratico, elitario nella sua natura, ma anche capace di sporcarsi nel fango: quando vengono letti i nomi di Simeone e dei responsabili al VAR, la bordata di fischi è assordante. Poi, la coreografia: “Cento anni che la capitale è blanca”. Prima del fischio d’inizio, c’è spazio per il tributo a Marcelo, che ha appena comunicato l’addio al calcio: i giocatori del Real gli dedicano un pasillo de honor nell’eco degli applausi scroscianti del pubblico; dall’altro lato del campo, i giocatori dell’Atleti fanno finta di niente, e proseguono il loro stretching disinteressati. Non è il momento di porgere la guancia al nemico. Inizia la partita, e i tifosi del Real intonano un coro che, chiunque viva in una città in cui si gioca un derby calcistico, vorrebbe avere la fortuna di poter cantare: è il coro dedicato alle due Champions – Lisbona e Milano – che il Real ha alzato in faccia all’Atletico. Come disse Carletto, sono las espinas que duelen: “Indios, decidme que se siente, haber perdido la final…”

Nei primi venti minuti non succede molto, complici le trappole che Simeone ha costruito intorno a Vinicius e Mbappé, che vagano tra il lato sinistro e il centro del campo. A bordo campo Simeone vive una partita a parte: agita le braccia, saltella su una gamba, dà indicazione a chiunque, probabilmente più che altro a se stesso, e si dispera con una teatralità che ha pochi eguali quando i suoi buttano via contropiedi compromettenti, come nel caso di Lodi, che al 4’ minuto si allunga il pallone anziché servire Griezmann al centro tutto solo. Poi, al 33’, la svolta che tutti attendevano. L’episodio arbitrale controverso che, visto il clima, tra un Real che lamentava di essere stato penalizzato e un Atleti che scongiurava le possibilità di subire la più classica delle compensazioni, non può che scatenare polemiche. C’è uno step-on-foot di Tchouameni su Samuel Lino: l’arbitro non lo vede, ma il VAR lo richiama. Il Bernabéu, come il complottista che, raccolta una nuova prova a sostegno della sua teoria, si entusiasta, esplode. L’arbitro assegna il rigore. Lo stadio, in un tripudio di sciarpe e fazzoletti agitati al vento – quella che qui si definisce pañolada – risponde a gran voce: “Corrupción, en la federacion!”.Tutto intorno brucia di nervosismo come lava, ma poi c’è Julian Alvarez, che, con un pallonetto a Courtois, in un attimo gela l’intero stadio.

Da qui in poi, a ogni fallo, calcio d’angolo o minima situazione di gioco dubbia, il Bernabéu protesta in preda al furore. Chi però non si fa condizionare dal clima rovente è Raùl Asencio, ragazzo di 21 anni buttato nella mischia solo tre mesi fa dal Castilla, autore di una partita pressoché perfetta, capace di trascinare tutto lo stadio con le sue scivolate sceniche da difensore vecchia scuola e i suoi recuperi in campo aperto da bufalo inferocito. In campo, tutto sommato, tra i giocatori il clima rimane pacifico: anche dei fuoriclasse del “trash-talking” e del giocare sporco come De Paul e Gimenéz mantengono la partita su binari pacifici ed evitano che il Bernabéu si surriscaldi ulteriormente. Al pari di Mbappé a inizio secondo tempo, la rabbia si trasforma in entusiasmo: “Como no te voy a querer!?”, intona “la grada” seguita a ruota da tutto lo stadio.

Il Bernabéu non si contraddistingue certo per un tifo incessante, ma è uno di quegli stadi che, nei momenti decisivi, sa salire in cattedra inducendo i giocatori a uno stato di trance agonistica capace di fargli compiere imprese insperate. Quando sale di tono, il Bernabéu fa venire a chiunque abbia la fortuna di viverlo un certo tipo di brividino: quello di questo stadio ha un’intensità con pochi eguali, perché oltre a essere appassionato, è anche magniloquente, sfrontato, è il canto del popolo calcistico più grande e vincente d’Europa. Sa di una potenza che, se ne fai parte, ti fa capire che sei il leone nella savana, e se non ne fai parte, ti incute il timore della preda facile. In questa cornice, il Real spinge per tutto il finale di partita, ma non trova mai il guizzo decisivo; l’Atleti, che a centrocampo, tra Barrios e De Paul, fa una grande partita, è sempre pronto a ripartire, ma anche in questo caso manca l’ultimo affondo. Alla fine, come spesso accade, la tensione accumulata nelle settimane è stata tanta da anestetizzare un po’ l’effetto spettacolo sul campo: l’epilogo è un 1-1 che sa di temporaneo armistizio.