C’è una nuova macchina da calciomercato. Frenetica, accessoriata di ogni turbo, che non bada a spese. E conta di arrivare presto a sparigliare le carte della Serie A: se così non fosse, portafoglio alla mano, sai che fiasco. Ma a Como è da un certo tempo che si respira aria di successo a trecentosessanta gradi. Boom di marketing e infrastrutture. Investimenti oculati nel settore giovanile. Squadra in rampa di lancio nel massimo campionato. Con tutte le intenzioni di restarci: in numeri fanno 105 milioni di euro sborsati tra estate e inverno, per l’arrivo di 23 giocatori – molti dei quali già dirottati verso altri lidi, in un tourbillon compulsivo di rovesciamenti tecnici. Tutto funziona, per carità: la scorsa stagione il Como ha avuto quattro allenatori diversi, record nazionale, e hanno centrato la promozione diretta. Quest’anno è la porta a essere girevole: Reina, Audero, Butez. E il Como sceso in campo nell’ultima giornata già si discosta per nove undicesimi da quello visto al debutto in campionato: resistono soltanto Goldaniga e Cutrone. Eppure i ragazzi di Fàbregas – uno, nessuno e centomila – sono là, ancorati al treno salvezza. Con l’inerzia dalla loro e una rosa rimescolata a ritmi vertiginosi.
Le qualità ci sono. Le risorse, manco serve ricordarlo. O forse sì. Perché da mesi, dalle parti del Sinigaglia, va facendosi largo uno slogan sempreverde: «Sviluppo economico sostenibile». Lo ripete Francesco Terrazzani, amministratore delegato. Lo ribadisce Mirwan Suwarso, presidente del club e rappresentante in Italia dei fratelli Hartono, gli anziani proprietari dall’Indonesia, che seguono con passione l’evolvere del progetto Comolake. Tutto possono, se vogliono: non è un’esagerazione, stando al loro patrimonio combinato (i 50,3 miliardi di dollari stimati da Forbes sono ben oltre il tutto, per fare calcio). E negli ultimi anni stanno decisamente dimostrando di volere. Dal 2020 hanno stanziato 136,8 milioni di euro, di versamento in versamento – oltre la metà tra 2023 e 2025, di pari passo col balzo in avanti sul campo. E in queste settimane, mentre la dirigenza sportiva signoreggiava nelle trattative, hanno garantito altri 30 aumenti di capitale per rimpolpare le casse societarie. Inevitabilmente bisognose: il bilancio del Como (fonte Calcio e Finanza) è in rosso perenne, con un risultato netto da -47,8 milioni soltanto nell’esercizio più recente. Cifre che si rispecchiano nel calciomercato.
In Italia, il saldo negativo del Como batte tutti: quasi 50 milioni di spesa nella finestra di riparazione appena conclusa (a fronte di entrate pressoché nulle, dati Transfermarkt). Nemmeno Milan e Juve si avvicinano. Quattro stagioni fa la squadra oggi affidata a Fàbregas giocava in Serie C, nel 2019 era fra i dilettanti. E oggi, di colpo, è diventata il quinto club al mondo in questa speciale classifica: soltanto Lipsia (-55,5 milioni), Al-Nassr (-57), Al-Ahly (-59) e Manchester City (-218) registrano un segno meno più pesante. E nessuno dei suddetti squadroni è noto per virtuosismi aziendalistico-pallonari. I tedeschi targati Red Bull sono la muscolare espansione di una multinazionale nello sport business. Le altre società, come dire, si finanziano coi petroldollari. I soldi del Como – cioè dei fratelli Hartono – piovono analogamente da sigarette aromatiche, finanza, elettronica ed e-commerce.
L’ad Terrazzani parla di «progetto calcistico innovativo», lo è senz’altro, sostenendo che le passività di questa prima fase sono sintomatiche degli investimenti effettuati e getteranno le basi per «l’autosufficienza economica nel lungo periodo». Nemmeno questo ragionamento, però, può essere ascrivibile al concetto di sostenibilità: il castello sta in piedi finché dall’alto i rubinetti scrosciano a fondo perduto. Il modello-Como, insomma, non è soltanto unico per location, fascino hollywoodiano e integrazione con il territorio circostante: lo è soprattutto per la sua irripetibilità a monte. Di signori del calcio che dispongono del Pil della Tunisia praticamente non ce ne sono.
A Como si gioca con altri ordini di grandezza, dove i faraonici asset al termine della filiera (la squadra, i giocatori) sembrano bruscolini al suo apice (la holding, i magnati). I dirigenti del Como acclamano a più riprese l’esemplare Atalanta, che però poggia su un cinquantesimo delle risorse, quelle della famiglia Percassi. L’unico scenario sinistro che invece può aleggiare attorno al club – a oggi privo di fondamento – è che la famiglia Hartono un giorno si stufi del pallone. Così, per capriccio. Scongiuri sul lungolago. Nel frattempo, durante il calciomercato di gennaio, qualche insider ha raccontato che il Como abbia fatto recapitare al Milan un’offerta da 30 o anche da 40 milioni per Theo Hernández. A pensarci bene, non importa se la notizia fosse vera o falsa: il punto è che è verosimile, il Como potrebbe tranquillamente aver pensato e agito in questo modo. Ne aveva, ne ha le facoltà.
È tutto questo una colpa, una macchia morale o un sistema alterato? Assolutamente no: la fortuna del Como, a partire da un eccezionale paesaggio di sfondo, è stata quella di attirare una proprietà altrettanto eccezionale. Ed è pur vero che avrebbe potuto comunque dilapidare le sue risorse in modo grossolano, all’insegna dell’hic et nunc e alla ricerca di prestigiosissimi nomi ad effetto. Gli unici sono stati Henry e Fàbregas, essenziali però per trasmettere know-how e mentalità vincente. Tutto il resto è un Como giovane (Diao, Caqueret, Fadera e il 25enne attaccante greco Douvikas, preso dal Celta per 13 milioni), audace (Sergi Roberto, Dele Alli), in cerca del continuo salto di qualità (Nico Paz) eppure attento a non ammainare il proprio passato (Gabrielloni, capitano dalla Serie D alla Serie A). Un po’ cantera dei top club (rinforzi da City, Barça e Real) e un po’ carriera su Football Manager in divenire. Ma in questa storia, più della frugale formica, il Como rappresenta la cicala che ha sbancato al casinò. Con incasso da Serie A.