Quando un gol ti cambia la vita. Chiedere ad Alberto Paloschi e a quanti ancora ricordano il debutto da favola in Serie A di quel ragazzo che 17 anni fa – era il 10 febbraio 2008 – aveva emozionato tutti. Milan-Siena, minuto 64′: fuori Serginho, dentro Paloschi. «Diciotto anni compiuti il 4 gennaio, classe 1990» scandisce con voce ferma Riccardo Gentile, telecronista di Sky. «Bresciano di nascita, cresciuto nel settore giovanile, vive a Gallarate nel pensionato dei ragazzi rossoneri. È all’ultimo anno di liceo scientifico. Per lui anche un esordio importante nell’Under 16…». Poi la dettagliata descrizione di Gentile s’interrompe. E il tono da pacato si fa estasiato: «Attenzione subito!». Non fa nemmeno in tempo a terminare la frase: al primo pallone disponibile, Paloschi si coordina come meglio non potrebbe e con un gran diagonale al volo infila un incolpevole Manninger. Dal suo ingresso in campo sono trascorsi solo diciotto secondi.
Alberto urla, si dimena e con gli occhi increduli di chi non sa ancora quel che ha combinato, corre a perdifiato verso la bandierina. Brocchi è il primo ad abbracciarlo, poi arriva Pippo Inzaghi, il suo idolo da ragazzino. San Siro esplode, Ancelotti se la ride, batte il cinque a Tassotti. È la rete che regala la vittoria ai rossoneri, ma soprattutto è il gol con cui il calcio italiano scopre il talento di questo giovane bresciano. Lo stesso che avrebbe poi indossato le casacche di Parma, Genoa, Chievo, Swansea, Atalanta, Spal, Cagliari, Siena e Desenzano. Diciassette anni dopo, Alberto quegli occhi sgranati ce li ha ancora. Ora però la cornice non è il Meazza di Milano ma il Comunale di Palazzolo sull’Oglio, provincia di Brescia, a due passi da casa. Campionato di Serie D, sentitissimo derby contro il Desenzano, dove giocava fino a qualche settimana fa: cross dalla destra di Saltarelli, colpo di testa vincente di Paloschi. Proprio lui, ancora lui. È la sua prima rete in maglia Pro Palazzolo, nuovo ed ennesimo capitolo di una carriera iniziata col botto.
Ⓤ: Quanto aveva desiderato di segnare alla sua ex squadra?
In realtà avevo solo sognato di sbloccarmi e di riuscire a siglare una rete importante per la mia di squadra, che ora si chiama Pro Palazzolo. A prescindere che l’abbia fatto contro il Desenzano, è andata bene. Sono contento soprattutto perché ci ha permesso di conquistare i tre punti. In fondo, sono qui per questo.
Ⓤ: L’emozione di un gol è sempre la stessa?
Certo, che si tratti di Serie D o Serie A, cambia poco. Nel corso della settimana lavoro per quel momento e ogni volta è un’emozione nuova. Sono reduce da un’operazione al ginocchio (menisco, ndr), questa gioia l’aspettavo da tanto.
Ⓤ: Mani alle orecchie, esultanza rabbiosa. L’aveva preparata?
Assolutamente no, mi è venuta spontanea. Quando segno non penso mai a come esultare. Arriva e basta.
Ⓤ: A proposito di gioie improvvise. Come definirebbe oggi il suo debutto con la maglia del Milan?
Indimenticabile. Credo che il mio esordio in Serie A sia quello che tutti i ragazzini sognano quando iniziano a giocare. Ha dato il la alla mia carriera e non nego che ancora oggi ogni tanto me lo vado a riguardare. È uno splendido ricordo, rivederlo è sempre una gioia.
Ⓤ: Le ha davvero cambiato la vita?
Mi ha dato sicuramente una mano, aiutandomi a iniziare al meglio la carriera. Poi però ho intrapreso un percorso tutto mio e per fortuna sono riuscito a farne tanti altri (119 in totale tra Serie A, B, C e D, ndr).
Ⓤ: Quel giorno, in campo insieme a lei c’erano Nesta, Cafu, Maldini, Pirlo, Seedorf, Ronaldo, Pippo Inzaghi…
Tutti grandissimi campioni, che mi hanno trasmesso soprattutto la cultura del lavoro. Nulla viene per caso. Anche dei fuoriclasse come loro, che in carriera avevano già vinto tutto, lavoravano per migliorarsi, curando ogni minimo dettaglio. Io cercavo solo di apprendere e “rubare” il più possibile da ciascuno di loro. Una cosa mi impressionava in particolare: più vincevano e più avevano fame di vittoria. Quella era la vera forza del Milan.

Ⓤ: Al tempo indossava la maglia rossonera numero 43, la stessa che veste ancora oggi.
È un numero al quale sono molto legato. Ai giocatori della Primavera era solito assegnare numeri alti e a me era capitato il 43. Come sapete, mi ha portato molta fortuna, per questo dopo tanti anni ho voluto riproporlo qui a Palazzolo. Speriamo sia di buon auspicio.
Ⓤ: In panchina c’era un certo Carlo Ancelotti. Cosa pensa di lui?
Un mostro sacro del calcio ma soprattutto una persona genuina, sincera e leale. Da ammirare, cercando magari un giorno di ripercorrere anche solo l’1% di quello che è riuscito a fare. Sfido chiunque a dire qualcosa di negativo su Ancelotti.
Ⓤ: Chi è oggi Alberto Paloschi?
Un giocatore della Pro Palazzolo che vuole raggiungere un sogno: tornare tra i professionisti con questa maglia. È il mio unico obiettivo.
Ⓤ: Cosa le piace fare lontano dal campo?
Passeggiare in montagna con la mia compagna (Martina, ndr) e andare al cinema.
Ⓤ: Il suo attore preferito?
Leonardo DiCaprio, il migliore in assoluto.
Ⓤ: Film?
Tutti quelli in cui recita lui. Dal Lupo di Wall Street a Titanic, La Maschera di Ferro, C’era una volta a Hollywood. È difficile sceglierne uno.
Ⓤ: Cosa pensa di aver dato al calcio e cosa pensa che il calcio abbia dato a lei?
Tutto me stesso, a ogni singolo allenamento e a ogni partita. Per questo non ho rimpianti. Penso e credo di aver raccolto quello che meritavo. E in questi ultimi anni di carriera spero di riuscire a vivere ancora tante altre gioie. Ho imparato che spesso il calcio sa regalare emozioni inaspettate. Io lavoro per queste emozioni.
Ⓤ: Che consiglio darebbe a un giovane che sogna di ripercorrere le sue orme?
Solo uno: entrare in campo e divertirsi, sempre.
Ⓤ: Che ambiente ha trovato a Palazzolo?
Pieno di entusiasmo, fondamentale per inseguire le emozioni di cui parlavo prima. È una piazza calda che in passato ha già vissuto il professionismo e che non vede l’ora di tornarci. Bisogna solo coltivare il sogno e non smettere di crederci.
Ⓤ: Come vive il trascorrere degli anni?
Penso che tutto ciò che ha un inizio abbia anche una fine. Ora però non se ne parla: nel mio corpo c’è ancora quella fiamma che mi fa rosicare quando perdo e godere quando vinco. Io voglio vincere ancora.
Ⓤ: Qual è stato il momento più felice della sua carriera?
Gli anni al Chievo Verona di Luca Campedelli, dove ogni stagione puntavamo a raggiungere il nostro piccolo scudetto: la salvezza. Continuando a stupire e a scrivere sempre nuovi capitoli di quella che è stata una vera e propria favola. Eravamo un bel gruppo: un gruppo di amici che si ritrovava in campo e ogni domenica battagliava. Sono stati senza dubbio gli anni in cui sono riuscito a esprimermi al meglio.

Ⓤ: Il direttore sportivo di quel Chievo era Giovanni Sartori, che poi ha saputo fare grandi cose all’Atalanta e ora anche al Bologna. Era già così bravo?
È sempre stato un dirigente silenzioso ma quando c’era bisogno di intervenire entrava in tackle senza problemi. Era molto rispettato da noi giocatori perché ogni volta che parlava diceva sempre cose molto sensate. Mai una virgola fuori posto. I risultati che ha ottenuto nel corso degli anni sono sotto gli occhi di tutti. È seza dubbio uno dei migliori direttori sportivi in circolazione.
Ⓤ: Guardandosi indietro, rifarebbe tutto?
Assolutamente. Ho sempre dato il massimo, a cento all’ora e a testa alta. Sono a posto con la mia coscienza.
Ⓤ: Il suo gol più bello?
Non ne ho uno in particolare perché penso che anche il più brutto abbia una valenza importante. E per me quella è l’unica cosa che conta. Il gol è il premio del lavoro svolto ogni giorno in allenamento: che sia di tibia, di tacco, di collo, di testa o in rovesciata, è sempre riuscito a rendere migliori i fine settimana.
Ⓤ: Nel suo stato di Whatsapp c’è scritto: “Chi vivrà vedrà”. Che significato ha per lei questa espressione?
Sono un tipo molto fatalista. Credo al fato, al destino. Penso che qualcosa sia già stato scritto, poi però sta a noi indirizzarlo verso il bene o verso il male. Di certo serve avere tanta pazienza e sapere che alla fine ciascuno raccoglie quel che merita.