La vita imita internet, ormai si sa. Le campagne elettorali oggi si fanno con i meme, le guerre si combattono, vincono e perdono (anche) sui social, le mode si fanno assecondando l’algoritmo, la cultura si diffonde grazie all’esplosivo fenomeno che abbiamo ribattezzato “andare virali”, persino il cibo ha cambiato forme, colori, odori, sapori, consistenze dopo l’avvento di internet. Soprattutto il cibo, direbbero gli studiosi di quel potentissimo movimento etico-estetico chiamato foodporn. Chiunque sia stato su internet anche soltanto per un minuto in tutta la sua vita è certamente incappato in una delle sue manifestazioni. Una di queste manifestazioni è di recente creazione e sorprendente successo: è un profilo X che si chiama Footy Scran – al momento in cui scrivo il contatore del follower segna 586 mila e spiccioli – una raccolta di fotografie che mostrano l’intersezione tra il foodporn, spazio di internet, e lo stadio, spazio del mondo.
Breve digressione etimologica: il nome di questo profilo X è composto da footy, l’affettuoso vezzeggiativo con il quale nell’inglese britannico si indica tutto ciò che ha a che fare con il pallone, e scran, parola dialettale diffusissima a Manchester, Liverpool e in tutta la Scozia, che sta sia per cibo che per cibarsi. C’è una sfumatura di significato, però, che nella traduzione letterale va inevitabilmente perduta: in italiano, scran si potrebbe approssimare usando la perifrasi “mangiare un boccone” oppure “mangiare qualcosa al volo”. Negli ultimi tempi, quindi in tempi di street food e di food porn, al significato di scran si è aggiunta una sfumatura ulteriore: è il cibo ipercalorico ed iperestetico che si vede su internet, che si mangia in luoghi che non sono la casa e in momenti che non sono i pasti comandati. Il passo da scran a footy scran è brevissimo, dunque.
Per un italiano, scorrere le fotografie raccolte dentro Footy Scran può essere straniante. Da noi lo stadio è ancora, in larga parte e spesse volte, un’esperienza passatista: difficile trovare un posto a sedere decente, figuriamoci un ristorante, un bar o un chiosco che serva cibo buono. Il footy scran è una conseguenza del modello inglese, se ancora così si può definire il buon senso che vuole lo stadio come esperienza non solo calcistica ma anche sociale, non soltanto collettiva ma anche variegata. In Italia il cibo da stadio è ancora una derivazione del desuetissimo modello che facciamo tanta fatica a superare. Dentro lo stadio c’è spazio a malapena per campo, pallone, calciatori e spettatori: tutto il mondo fuori, suo malgrado. E infatti, la vetusta condizione dei nostri stadi impone abitudini ampiamente superati in altri Paesi che hanno seguito altre strade. Strutture vecchie causano rallentamenti all’ingresso, i rallentamenti all’ingresso impongono di arrivare con largo anticipo, cosa che spesso e volentieri costringe a rivedere orari e modalità di consumazione dei pasti.
Sausage at Bohemians Praha (@BohemiansPraha)
?? 95czk (£3) pic.twitter.com/bCg5miEJ61
— Footy Scran (@FootyScran) December 11, 2024
Ci si ritrova dunque accalcati attorno ai chioschetti che circondano lo stadio, in coda per la santissima trinità del cibo da stadio italiano: il panino con la porchetta, con la salamella o con la postmoderna alternativa hamburger-wurstel-cotoletta. Condimenti vari ed eventuali, salse sempre e soltanto quelle: ketchup, maionese, senape, altra trinità. È cibo-carburante, apprezzato soprattutto per l’apporto calorico necessario in vista di due ore di urla e sbracciate: si mangia in fretta, senza fare caso ai moti di protesta del palato, il bolo alimentare viene spinto giù da una cascata del beveraggio preferito. Le alternative da noi sono ancora pochissime e pochissimo diffuse: su Footy Scran l’Italia è una provincia lontana che compare raramente, capita di vedere una pizza margherita divisa in due, il prato dell’Olimpico sullo sfondo, ma è cosa più da Strapaese che da internet culture. Oltre i confini la situazione è diversa e, soprattutto, variegata quanti sono i Paesi che hanno deciso di stare al passo coi tempi.
Ovviamente tutto è partito dall’Inghilterra, il Paese europeo che più di tutti soffre un complesso d’inferiorità causato dallo scarsissimo appeal delle propria cucina nazionale. C’è una battuta in quasi ogni lingua indoeuropea per dire quanto cattiva sia la cucina inglese (britannica in generale), e quindi si capisce perché nel footy scran inglese la natura fusion sia così accentuata: persino i tifosi inglesi non ne possono più di pies tiepide, farcite con carne in scatola e condite con una riga di ketchup sottomarca; persino gli ultra-britannici ne hanno avuto a sazietà di fish and chips e salsa tartara. Capita che la postpostironia di internet faccia tornare di moda il cheese and onion cob, ma è una moda che dura giusto il tempo di ricordarsi che è un panino con fetta di cheddar, fetta di cipolla bianca cruda, e basta. Almeno non ci si sporca le mani a mangiarlo, e nel fiato collettivo di una curva nessuno può accorgersi che è proprio il tuo quello che puzza di cipolla. Bisogna considerare poi che il pubblico degli stadi inglesi tende a essere assai più multietnico, cioè sofisticato, del nostro, quindi tanto più difficile da accontentare. Il pollo piace a tutti, rispetta i precetti di tutte le confessioni religiose e viene benissimo in foto, a patto che sia preparato come la dottrina del food porn insegna: impastellato e strafritto, così che l’esterno assuma il colore del miele di castagna e addentandolo emetta lo stesso suono di una foglia secca che si sbriciola. Pollo fritto alla coreana, alla giapponese, in una delle miriade di varianti inventate negli Stati Uniti (ultimamente quella che si porta di più è la maniera di Nashville, pollo reso extra hot da uno spessissimo rivestimento di pepe di Caienna che dona anche il caratteristico colore rosso-bruno).
Il pollo si sta affermando come comune denominatore del cibo da stadio in tutto il mondo perché si cucina in fretta e si sposa con tutto. Qui arriva il momento in cui il lettore italiano può soddisfare il suo insaziabile appetito per l’indignazione: negli stadi dei Paesi caraibici il piatto prediletto dei tifosi è la rasta pasta, intruglio delizioso il cui ingrediente principale è proprio il pollo nella tipica versione jerk, molto piccante e molto speziata. Ma nei Paesi in cui la carne è religione – e quindi America latina e Stati Uniti – le varianti di basi e preparazioni si moltiplicano per dieci, cento, mille. Ogni Paese del Sud America ha dato una forma nazional-popolare all’ossessione per la brace, una forma che allo stadio è spesso quella oblunga della salsiccia: il carburante delle barra bravas in Argentina è il grasso che cola giù dai choripan, panini con la salamella nobilitati dalla salsa chimichurri; nelle torcidas brasiliane, soprattutto in quelle pauliste, l’energia si prende a cucchiaiate dalle ciotole di feijão tropeiro, piatto unico che contiene tutte le proteine note all’uomo, da quelle racchiuse in un fagiolo a quelle, appunto, che si possono insaccare in una salsiccia. Un po’ dappertutto nel continente si spezza la fame pre, durante e post partita con le salchipapas, wurstel tagliato a fette sparpagliato sopra una montagnola di patatine fritte, tutto inondato di ketchup e maionese. E poi il dessert, anche questo pan-americano: i churros, zuccherosissimi cilindri di impasto farciti con altrettanto zuccherosissimi ripieni.
@FootyScran at Hillsborough gets a bad rep (and rightly so), but this was epic!
Salt & pepper chicken with chips and katsu curry, £5.50. Filled a hole!#swfc pic.twitter.com/ARt2Ef45HS
— Matt (@chubbygorn) December 7, 2024
Si dirà: ma in questi stadi i fumi che salgono dai fornelli, dai forni, dalle braci, non rischiano di mettere a rischio il regolare svolgimento delle partite? Il rischio c’è ma le soluzioni pure: magari vengono approntate coreografie fumogene pensate appositamente per coprire il fumo con altro fumo. Le società che se lo possono permettere installeranno appositi impianti di areazione, magari di quelli avveniristici che ripuliscono il fumo delle cucine dai grassi alimentari e lo convertono in aria buona per il riscaldamento degli ambienti. Magari ci sono club che prendono una pagina dal libro americano-statunitense e invitano i tifosi ad adottare la tradizione del tailgate party: si parte da casa con tutto il necessario per la grigliata – la carne, certo, le salse, ovvio, i contorni, ci mancherebbe, ma pure la griglia, la carbonella, la diavolina – si pranza in uno spazio a piacimento vicino allo stadio, pennichella post prandiale e poi via, al cancello d’ingresso, ma prima una tappa al ristorante dello stadio per un rinforzino in vista della lunga fatica del tifo: le fries le prendiamo lisce o loaded (tradotto: quanti e quali formaggi fusi ci vogliamo sopra, quanto bacon sbriciolato, gli jalapeño meglio crudi o sottaceto), le alette le mangiamo con la salsa ranch, la buffalo o la chipotle? L’hot dog è più buono classico, con senape e crauti, con patate stufate e chili, alla newyorchese o alla chicagoana (con una giardiniera tagliata grossa e spessa?) Come companatico meglio un maxi pretzel o una montagnetta di nachos?
L’abbondanza, viene da dire l’opulenza, dell’Inghilterra, delle Americhe, e di pochissime e ingordissime zone dell’Europa – una delle cose più divertenti da fare scorrendo le foto di Footy Scran è immaginarsi lo “snap”, il suono che fanno le salsicce cotte a puntino quando le si addenta, emesso dai bratwurst che si servono negli stadi tedeschi – mette di malumore, a vederla dal punto di vista di un tifoso italiano fermo al suo panino, alla sua birretta, al suo Borghetti monosorso da tracannare nelle uscite invernali.
Scontiamo, noi italiani, la nostra tendenza a sacralizzare il profano, tendenza di cui il calcio è l’oggetto prediletto: seguiamo la partita con un’attenzione e un trasporto che non ci riesce di raggiungere neanche durante la Messa, figuriamoci se si può immaginare di disturbare la funzione domenicale con il suono della masticazione. E poi non siamo capaci a insozzarci le mani col cibo, ormai anche il pollo mangiato con le mani ci mette a disagio, è impensabile impiastricciarsi le dita con hamburger alti come palazzi. La soluzione sarebbe guardare a Oriente invece che a Occidente: i giapponesi le loro partite se le godono mangiucchiando takoyaki, polpettine di polpo impastellate con arte e condite con cura, in apposite confezioni a multipli di quattro e con con comode mini-posate. Che fare, dunque? Rassegnarsi alla scarsissima biodiversità alimentare dello stadio italiano? Arrendersi alla dittatura del food porn? Come in tutte le dicotomie, il problema è un falso problema e una via di mezzo c’è: il tifoso italiano non pretende di vedere la partita allo stadio mangiando calzoni ripieni di carbocrema e granella di chorizo e scaglie di cheddar cheese. Basterebbe trovare un calzone al bar dello stadio. Uno normalissimo, pomodoro e mozzarella. Basta che sia buono.