Non si può ancora dire con certezza se Nicolò Barella sia nato per stare nell’ombra o se il suo posto nel mondo sia invece sotto ai riflettori. Anche perché la sua storia, fin qui, è stato un perfetto equilibrio tra esuberanza e misura, tra impeto e classe. Tra ombre e luci. A 27 anni, Barella è uno dei migliori centrocampisti in circolazione. Anche se non è facile individuare il momento in cui si è consacrato come tale, un turning point specifico nell’arco della sua carriera, proprio perché la sua evoluzione non è stata appariscente né folgorante, ma costante. Si potrebbe dire che Barella si sia costruito nel tempo, e col tempo si è ritagliato credibilità nell’immaginario di noi che guardiamo il calcio. Ci è riuscito attraverso tante vittorie – un Europeo, due Scudetti, varie coppe nazionali – e altrettante sconfitte (tra cui le due finali perse, di Europa League e Champions League).
Barella, comunque, non sembra dare troppo peso al suo status, almeno stando alle sue più recenti interviste. Anzi. L’interista ha reso il suo calcio gradualmente sempre meno sfarzoso, orientandosi sul controllo a scapito della spettacolarità. Per citare de Saint-Exupéry e il suo Piccolo Principe, l’essenziale è invisibile agli occhi. Forse è per questo che il calcio di Barella è sempre meno visibile, sempre più ricercato, sempre più per pochi. Non si vede bene proprio perché è essenziale. «Magari prima ero più attratto da un recupero palla o un gol, cose che all’occhio del tifoso sono più importanti», ha raccontato Barella in un’intervista a Dazn di dicembre. «Ora sono più tranquillo in campo. Sono manovale quando serve essere manovale e ingegnere quando serve essere ingegnere».
Ma in cosa, Nicolò Barella, è attualmente tra i migliori, se non il miglior interprete del suo ruolo? Partiamo dalla fine, cioè dal gol contro la Lazio, il terzo stagionale del numero 23 (a fronte dei di totali segnati l’anno scorso), arrivato dopo la volée mozzafiato contro l’Atalanta e la rete al Parma del 6 dicembre. Barella ha ricevuto ad altezza trequarti una palla orizzontale di Calhanoglu, ha fatto un mezzo controllo orientato con il sinistro e ha esploso un destro spaziale sotto all’incrocio. Golazo. Una realizzazione che ha ricordato quelle tipiche del suo primo idolo, Dejan Stankovic. Anche se, stilisticamente, si può ormai parlare propriamente di gol alla Barella.
Ricordando e riguardando i 25 centri (più del doppio, invece, gli assist) nei suoi primi cinque anni in nerazzurro, infatti, si rintracciano dei veri e propri stilemi nei gol dell’ex Cagliari, un canone specifico e ricorrente nel suo modo di segnare. Detto del tiro da fuori, specialità del repertorio, così era arrivato il suo primo gol in Serie A con l’Inter, nel 2019 contro il Verona. E con un altro tiro a giro dal limite anche la firma sulla finale di Coppa Italia contro la Juve (stagione 21/22). Da menzionare anche le sue volée e da riguardare in loop il già citato mancino volante contro l’Atalanta di agosto e un altro gol al volo di due anni fa alla Cremonese, quella volta però col piede preferito. Gli altri gol più belli e pesanti sono arrivati con i classici inserimenti di Barella: contro Benfica e Barcellona nell’anno di Istanbul e in campionato alla Samp, sempre su assist di Bastoni, e l’anno scorso contro il Napoli, con tanto di slalom fulmineo nell’area avversaria.
Considerare solo i gol sarebbe comunque riduttivo nel racconto del Barella contemporaneo. Una delle tre teste del centrocampo interista, il Cerbero indomabile di Inzaghi, che comprende altri due elementi imprescindibili: Calhanoglu e Mkhitaryan. Tanto che si può estendere il discorso anche al turco e all’armeno e considerare l’intero reparto dell’Inter come tra i più dominanti d’Europa. Soprattutto se si considerano gli innesti di Frattesi e Zielinski, due assi nelle rotazioni del centrocampo, il gruppo di Avengers nerazzurri non sembra avere particolari debolezze.
Le partite di Barella, anche quando non fa gol – curiosamente la sua stagione meno prolifica è stata la scorsa, ma è stata anche la più prestigiosa con la conquista della seconda stella – sono piene di cose, come se fosse contemporaneamente gambe, testa e cuore del gioco di Inzaghi. Un gioco transizionale favorito proprio dal dinamismo di Barella, che calpesta ogni centimetro del campo ed è fondamentale sia nel recupero che nell’uscita del pallone, attraverso la tecnica o la conduzione palla al piede. Come contro la Lazio, che ha ingabbiato tatticamente Calhanoglu, lasciando al 23 il compito di trovare sbocchi creativi in verticale. Barella, d’altronde, sa destreggiarsi nel traffico del centrocampo ricorrendo a un gioco quasi street, che include virtuosismi – colpi di tacco, lanci di prima, elastici in spazi stretti – da giocatore skillato, ma quasi sempre in zone di campo nascoste, tra un rapido uno-due con Calhanoglu e una sovrapposizione di Dumfries da premiare. Si passa sempre da lui, anche quando non te ne accorgi.
Barella, per il resto, non ha mai smesso di correre, non a caso è il migliore dell’Inter per pressione applicata nei 90 minuti. Ma nel tempo ha innalzato il livello qualitativo del suo calcio. Un calcio, come detto, meno appariscente ma ancora più efficace. Come quello del compagno Mkhitaryan, al quale ha confessato di guardare con ammirazione.
Forse Barella, oggi nel prime della sua carriera, ha trovato l’equilibrio proprio dei grandi calciatori, che gestiscono con naturalezza i momenti in cui possono e devono incidere. Come accade con gli attori più esperti e talentuosi, che sanno essere riconoscibili e unici al di là della parte che interpretano, così l’interista riesce a essere sempre sé stesso, a prescindere dalla funzione che deve sbrigare in campo. E a proposito delle cose di cui riempie le partite, è probabile che, oltre al compagno Mkhitaryan, Barella abbia studiato anche da Luka Modric, forse il campione invisibile per antonomasia, vista la frequenza con cui ricorre ai tocchi di esterno, marchio di fabbrica del 10 del Real, tanto da averne fatto un suo tratto stilistico. Come il croato, l’interista sembra aver capito che la sua prima missione è rendersi utile alla squadra. Ma proprio come il croato, nel farlo, riesce a non perdere mai la sua unicità. E oggi sembra saper governare con consapevolezza anche il suo lato artistico.
Forse la chiave del cambiamento, del famoso clic, risiede nella libertà mentale acquisita dal giocatore nelle più recenti stagioni. Un giocatore che sa fare tutto (letteralmente: la mezzala, il playmaker, persino il trequartista in Nazionale), in qualsiasi momento e in qualsiasi posizione. Un giocatore che ha smesso si sbracciarsi se un compagno sbaglia la giocata, che ha modificato il suo linguaggio del corpo in campo. E che, oltre ai meriti più tecnici, ha mantenuto intatto lo spirito delle prime battaglie, l’intensità furiosa delle rincorse, la frequenza dei tackle che San Siro sottolinea puntualmente con un roar, come se ruggisse insieme a lui. È curioso, quando vedi Barella battagliare con un avversario, anche uno più grande e grosso di lui, retrocedere allo stadio di underdog che torna al basso, prima di riconquistare palla, alzare la testa e tornare a dedicarsi all’alto. Nel modo di giocare di Barella c’è una traccia inconfondibile delle sue radici. Ovunque vada in campo, si intravede sempre da dov’è che viene.
È nato a Cagliari ma è cresciuto a Sestu, e ha sempre giocato a calcio, sin da piccolissimo. L’ha fatto nella Scuola Gigi Riva e, proprio come Rombo di Tuono, Barella è un figlio autentico della sua Sardegna. Delle sue origini ha mantenuto tutto, persino l’accento marcato con cui, nelle interviste, ringrazia i genitori per i sacrifici fatti. In una lunga chiacchierata fatta quest’anno con l’attore teatrale e conduttore radiofonico Matteo Caccia, ha parlato anche del suo DNA sardo: «Siamo persone oneste, che non si vendono», ha raccontato, rivendicando quei tratti di genuinità tipici della sua gente. Orgoglio e senso di appartenenza, questi i valori incrollabili del Barella uomo. Di questo, più che del sé calciatore, ha parlato nel corso dell’intervista, rivelando lati inediti della sua storia. Inclusa quella volta, poco più di un anno fa, in cui ha messo in discussione addirittura l’amore per calcio.
«È successo nell’anno dello scudetto, quando tutti mi criticavano all’inizio della stagione dicendo che non ero il solito. Non rendevo per questioni personali. Era un momento in cui non avevo una grande passione per il calcio, era veramente solo un lavoro. Poi è arrivato il gol col Napoli e da lì ho ripreso. Non mi sono sentito solo, ma sentivo di non aiutare abbastanza i miei compagni. Non mi sentivo inutile, ma non stavo dando quello che potevo dare. I miei compagni mi hanno sentire bene. Se la passione può venire meno? Si, non è che va via, magari molte cose diventano pesanti: il ritiro, l’allenamento, le corse. Se ti viene a 26 anni è un problema. A me è venuto ed ero spaventato».
Barella è distante anni luce dal prototipo contemporaneo del calciatore e questo si riflette anche nelle sue scelte fuori dal campo, nel modo in cui comunica – poco – attraverso i social network. La sua è la vita più o meno ordinaria di marito e padre di quattro figli e la sua routine è divisa tra calcio e famiglia. C’è la grande passione per i vini, pure quella legata alle sue origini («Il miglior amico di mio padre aveva delle vigne e io, dall’età di otto anni, andavo a fare la vendemmia»), e infine c’è Milano, c’è soprattutto l’Inter. Con l’Inter, Barella è diventato un tutt’uno. Un capitano anche senza fascia, quello in cui la gente si identifica e per cui fa il tifo naturalmente. Si potrebbe dire che Barella, oggi, è l’Inter.
Tutto quello che è diventato in campo – un giocatore completo, di classe, uno che farebbe il titolare ovunque – lo deve prima al Barella bambino che ha fatto sogni semplici, poi al Barella uomo che li ha realizzati. La famiglia, il Cagliari, l’Inter. Sempre in equilibrio tra ombre e luci, come quelle di San Siro che si accendono per lui.