Simone Inzaghi è diventato uno dei migliori allenatori d’Europa?

La sua crescita costante, in parallelo con quella dell'Inter, lo ha portato ad altezze siderali.

Al termine di Inter-Arsenal, quando si era presentato ai microfoni di Amazon Prime, Simone Inzaghi non era riuscito a nascondere un certo (auto)compiacimento. Non era tanto l’aver vinto una gara chiave in ottica qualificazione contro una squadra forte, che aveva definito «molto riconoscibile e con un’identità chiara, aggressiva e dinamica», quanto il modo in cui ci è riuscito: avendo avuto ragione sulle scelte di formazione. Scelte che, alla vigilia, avevano generato qualche mormorio di troppo – nell’approfondimento prepartita della CBS, Thierry Henry aveva detto: «Se fossi un giocatore dell’Arsenal e vedessi la formazione dell’Inter, direi: “Davvero è così che vuoi giocare contro di noi?» – pur essendo state parzialmente imposte dalle esigenze di un calendario che aveva portato i nerazzurri a giocare sette partite dal 5 ottobre al 6 novembre. E con l’ottava, il big match contro il Napoli di Antonio Conte, che sarebbe stata disputata di lì a quattro giorni: «Quando si parla di 23 titolari non lo si dice tanto per dire. Siamo arrivati alla sesta partita dal 20 ottobre, stiamo giocando praticamente ogni 72 ore, stasera avevo bisogno di cambiare e ho avuto comunque delle risposte importantissime» aveva dichiarato il tecnico piacentino, mentre accanto a lui Clarence Seedorf si complimentava per come era riuscito a valutare la situazione e a effettuare sempre le scelte giuste in funzione dell’avversario che l’Inter si era trovata ad affrontare volta per volta, senza farsi coinvolgere dalle logiche schematiche del turnover ad ogni costo.

A quasi tre settimane di distanza dall’1-0 contro i Gunners, la netta vittoria di Verona – la nona nelle ultime undici partite, la sesta nelle ultime otto in Serie A – ha confermato come l’Inter sia diventata in tutto e per tutto la squadra di Simone Inzaghi, di fatto ribaltando quel rapporto tra causa ed effetto che, fino all’inizio dell’anno scorso, ci faceva chiedere quando – e se – Simone Inzaghi sarebbe mai diventato l’allenatore perfetto per questa Inter. Oggi, invece, l’unico interrogativo sembra riguardare la possibilità che l’Inter possa essere (o meno) all’altezza di un allenatore che, per sua stessa ammissione, ha ricevuto numerose offerte dalla Premier League – «Quando ero alla Lazio ho avuto la possibilità di andare ad allenare in Inghilterra, e anche qui all’Inter. Ma come stavo bene allora sto bene adesso. In futuro si vedrà» – ed è arrivato all’apice della sua carriera, soprattutto se ne facciamo una questione di qualità e continuità del lavoro svolto.

Si tratta di un dettaglio che emerge anche dall’analisi dei topoi attorno ai quali Inzaghi ha saputo costruire la narrazione che lo circonda: nelle ultime due stagioni la sua capacità di creare valore e produrre risultati in linea con le aspettative societarie erano il memento cui appigliarsi nei momenti di difficoltà; ora che quei momenti sono sempre più rari, o comunque legati alla volatilità della singola partita, quelle stesse capacità costituiscono l’unità di misura tangibile del suo essere diventato un grande allenatore indipendentemente dal contesto, dal materiale umano a disposizione, dalle risorse impiegate per provare a migliorare e fissare ancora più in alto quel limite che, per altri, è stato invalicabile: «Bisogna lavorare sempre di più, soprattutto nei momenti positivi come questo. Noi cerchiamo sempre di vedere dove poter fare meglio: sabato, per esempio, abbiamo fatto cinque gol in un tempo, ma abbiamo anche visto dove e quando si sono verificate alcune disattenzioni che potevano costarci care», ha detto Inzaghi alla vigilia della gara contro il Lipsia.

In questo senso proprio il 5-0 del Bentegodi ha rappresentato la perfetta sintesi del modus operandi inzaghiano, la fiera campionaria di tutti gli elementi che hanno contribuito, e contribuiscono ancora, a fare dell’Inter la squadra italiana più completa e continua ad alti livelli negli ultimi cinque anni: c’è il turnover fatto al momento giusto e con gli uomini giusti – contro il Verona non hanno giocato Dimarco, Dumfries, Pavard e Lautaro e, tranne i fantacalcisti incalliti, nessuno si è accorto della differenza – così come c’è il recupero alla causa di giocatori che sembravano dimenticati come Correa, Asslani, Buchanan e Arnautovic, c’è l’attitudine a resettare immediatamente e a proiettarsi sugli obiettivi a breve termine ragionando nell’ottica del singolo passo alla volta.

Il resto lo fa la forza a tratti soverchiante di un gruppo che si è consolidato su quelle certezze individuali che sono poi diventate anche collettive, in un’unità d’intenti che può essere rintracciata nelle parole di Bisseck e Asslani, i volti di una partita che non ha mai avuto storia: «Per me cambia poco giocare a tre o a quattro, l’importante è fare bene e aiutare la squadra» ha detto il difensore. «Ora che giochiamo in Champions League mi auguro che rientri Calhanoglu perché è fortissimo e perché sappiamo quanto ci è utile», ha dichiarato il ventiduenne albanese, alla seconda gara da titolare dopo quella di Monza e ancora in cerca del suo posto all’interno di una rosa in gli indispensabili in senso assoluto sono sempre meno.

Da quando è arrivato all’Inter, nell’estate del 2021, Simone Inzaghi ha messo insieme 115 vittorie, 33 pareggi e 27 sconfitte in 175 partite di tutte le competizioni (Gabriel Bouys/AFP via Getty Images)

Quella delle gestione delle risorse è, però, solo uno degli aspetti – e forse nemmeno il più rilevante – di quello che è l’attuale sentire calcistico di Inzaghi. Se l’attenzione agli aspetti relazionali all’interno del gruppo squadra è certamente stato il punto di partenza del suo percorso formativo, oggi il metodo Inzaghi si caratterizza per quella stessa identità chiara, aggressiva e dinamica che lui stesso ha ritrovato nell’Arsenal di Arteta, ovviamente declinata in modo diverso attraverso un sistema fluido ed elastico nei principi e nell’interpretazione. Da buon figlio dell’era in cui il 3-5-2 ha riguadagnato una dignità e un’efficacia offensiva che faticavamo a riconoscergli, Inzaghi è stato il tecnico che più di tutti ha saputo implementare tutte quelle variazioni sul tema che gli hanno permesso di presentare ogni volta qualcosa di nuovo per ciò che riguarda costruzione e sviluppo dell’azione, trasformando un modulo statico e lineare nello specchio di un’evoluzione tecnico-tattica continua e costante.

Il riferimento alla varietà di soluzioni proposte in fase di prima costruzione per ovviare ai problemi posti dall’assenza di un giocatore che crei superiorità attraverso il dribbling non è casuale: l’Inter è una squadra matura e consapevole dei propri mezzi, che ha fatto delle connessioni e degli interscambi automatizzati la base per un calcio dinamico e ipercinetico, per una manovra che si sviluppa e progredisce di pari passo con l’interpretazione dei singoli, arrivando a un punto per cui l’imprevedibilità e la libertà d’azione risultano essere una naturale conseguenza della sistematizzazione, non il suo opposto.

E questo, nella Champions League senza padroni che abbiamo visto fino ad oggi, pone i nerazzurri sullo stesso piano del Liverpool di Arne Slot per ciò che riguarda quella sensazione di ingiocabilità che li ha già accompagnati in determinati periodi della scorsa stagione. E che, attualmente, rende l’Inter una contender credibile al di là delle valutazioni sul valore della rosa e delle differenze nel parco giocatori con le altre big. Che, però, stanno faticando non poco ad adattarsi a una realtà compressa, fatta di più partite con meno tempo a disposizione per prepararle, vale a dire il terreno su cui Simone Inzaghi sta riuscendo a spostare qualsiasi contesa, uscendone quasi sempre vincitore. In fondo la sua Inter ha già trovato quello che altre squadre – in Italia e in Europa – stanno ancora cercando: «Tutto ciò che posso dire è che ho avuto la fortuna di essere arrivato in una società importante e di aver avuto un gruppo di ragazzi straordinari che fino ad oggi mi hanno seguito in tutto. Tutti noi sappiamo ciò che abbiamo fatto e tutto ciò che dovremo fare ancora», ha dichiarato ieri, nella conferenza stampa di presentazione della partita che può spalancargli le porte della fase a eliminazione diretta per il quarto anno consecutivo. Il giornalista, in realtà, gli aveva chiesto se si sentisse uno dei migliori allenatori del mondo, ma Inzaghi ha voluto glissare ricordando come basti un cambio sbagliato o una scelta di formazione errata per tonare a essere criticati: in fondo l’idea stessa di essere il migliore assume oggi un valore relativo rispetto a ciò che Inzaghi è diventato, ovvero un tecnico in grado di costruire sempre nuovi equilibri. E di spostarli.