Nelle mani degli allenatori ci sono l’identità e il futuro delle loro squadre

Gasperini, Inzaghi e Thiago Motta sono i candidati al premio di miglior allenatore al Gran Galà del Calcio AIC 2024. E sono tutti allenatori che danno un'impronta chiara e riconoscibile alle loro squadre, in campo e fuori.

Ogni campionato di Serie A, da molti anni, vive il momento in cui non stiamo parlando abbastanza di Gasperini. C’è sempre un punto della stagione in cui l’Atalanta sembra più forte di quello che avevamo previsto, di solito quel momento arriva molto presto, magari già in autunno. Poi facciamo la tara sulle nuove aspettative, e in primavera c’è un altro momento non stiamo parlando abbastanza di Gasperini. È un cortocircuito cognitivo, causato forse dalla difficoltà nel recepire i cambiamenti di stato e di status di una squadra. Da quasi dieci anni l’Atalanta non smette di crescere, sul campo e non solo, migliora di stagione in stagione facendo vedere sempre qualcosa di nuovo. I passi falsi sono pochissimi. E non più tardi della scorsa primavera la squadra bergamasca ha vinto un trofeo internazionale: un risultato incredibile, a guardare a dov’era il club prima di Percassi. Si fa fatica a capire cosa è sorprendente e cosa no, dell’Atalanta, perché nel tempo il suo allenatore ha normalizzato lo straordinario, rendendo le eccezionalità sempre più frequenti, fino a renderle familiari.

Non è un caso che Gasperini sia uno dei candidati per il premio di allenatore dell’anno nell’ambito del Gran Galà del Calcio AIC, con Simone Inzaghi e Thiago Motta, per altro dopo averlo vinto nel 2019 e nel 2020. Perché nel 2024 ha fatto quello che ormai è un’abitudine, ha costruito un’Atalanta inedita, diversa, migliore. Lo ha fatto nell’unico modo possibile: cucendo sulla sua squadra un’identità precisa, chiara, inequivocabile. L’Atalanta di Gasperini® è un brand, un marchio riconoscibile da tanto tempo. Eppure non serve il microscopio per vedere che negli anni la formazione è cambiata molto. Rispetto alla primissima versione sturm und drang che aveva sorpreso tutti dopo un inizio non facile, la grande rivelazione è arrivata con una squadra più matura, amministrata dalla visione di Alejandro Gómez e colorata dalle pennellate di Josip Ilicic, sempre circondati da freak atletici fuori scala per la Serie A. Persi i due leader, Gasperini ha dovuto ripensare tutto il sistema. Ha affidato a Teun Koopmeiners la manovra e a Lookman il compito di piegare le difese avversarie. L’anno scorso ha inserito nell’equazione le intuizioni brillanti di Gianluca Scamacca e Charles De Keteleare. Giocatori diversi, approcci diversi. Adesso Gasperini ha perso anche la tecnica e il fosforo di Koopmeiners, ma ha saputo lavorare su nuove dinamiche, altre varianti tattiche, dimostrando che la sua squadra è già perfettamente integrata nonostante i tanti volti nuovi, anche in caso di assenze, di infortuni, di turnover.

La storia dell’Atalanta, anzi, dell’Atalanta di Gasperini®, è una rappresentazione accurata della Serie A. Cioè di un campionato in cui le squadre trovano consapevolezza, forza, perfino senso, nei loro allenatori, quindi nell’identità che questi riescono a costruire e a trasmettere ai loro giocatori, anno dopo anno. È diventato praticamente impossibile scindere il buon campionato di una squadra dai meriti dell’uomo che siede in panchina. Non a caso, tutti gli allenatori premiati negli ultimi anni al Gran Galà del Calcio AIC – oltre a Gasperini ci sono anche Stefano Pioli, Luciano Spalletti e Antonio Conte – hanno saputo dare alle loro squadre un’identità profondissima.

Prendiamo la classifica attuale del campionato. L’unica squadra sopra l’Atalanta è il Napoli di Conte, forse l’allenatore più sorprendente di questo inizio di stagione. Non tanto per i risultati in sé, quanto per la capacità di dare alla sua squadra una forma precisa, che però non è quella che ci saremmo aspettati. Si è separato dalla coperta di Linus del 3-5-2, o comunque da una difesa a tre che diventa a cinque in fase di non possesso. Ha dotato la sua formazione di una disposizione più fluida, capace di variare il 4-3-3, il 4-2-4 e il 5-4-1 in base al momento, anche con schieramenti asimmetrici. Lo ha fatto mantenendo però dei principi che non cambiano mai: intensità quando c’è da recuperare il pallone, grande forza fisica distribuita in tutte le posizioni del campo, equilibrio anche in transizione, i soliti meccanismi automatici a comandare gli uomini delle catene laterali. Condizioni che caratterizzano da sempre le squadre di Conte, tutte con un’identità – anche estetica – molto forte.

Antonio Conte ha vinto per quattro volte il premio di miglior allenatore nell’ambito del Gran Galà del Calcio AIC: è un record condiviso con Massimiliano Allegri (Michael Regan/Getty Images)

Poi c’è l’Inter di Inzaghi, la squadra campione d’Italia, quella che pratica la costruzione dal basso più varia e sofisticata, che ormai ha un sistema che sembra mandato a memoria dai giocatori. Anche qui è merito di Inzaghi e dell’identità che ha saputo creare prima e trasmettere poi. Certo, negli ultimi mesi sono arrivati colpi significativi per perfezionare il gioco dei nerazzurri: Zielinski aggiunge controllo a metà campo e visione sulla trequarti a una squadra che ha già in Barella, Mkhitaryan e Frattesi le mezzali migliori per riempire l’area; Taremi è quel centravanti associativo che può stare al fianco di Thuram e di Lautaro indifferentemente, o lavorare con loro nei minuti finali in caso di svantaggio. Così l’Inter ha investito relativamente poco per migliorare una squadra già fortissima, piena di certezze, e può alimentare un ciclo vincente con le idee prima ancora che con l’hard power monetario. Anche questa capacità nasce dalle idee e dal lavoro di chi va in panchina.

L’altra grande sorpresa di questo inizio è la Fiorentina, che è già la Fiorentina di Raffaele Palladino.  La rinascita inattesa di Moise Kean è il segnale più evidente dei meriti dell’allenatore ex Monza. In realtà è tutta la squadra a funzionare benissimo, soprattutto da quando Palladino l’ha sistemata con un 4-2-3-1 irregolare che ha trovato un nuovo equilibrio a partire da scelte forti – come l’esclusione dall’undici titolare di Cristiano Biraghi – necessarie per dare alla squadra la fisionomia attuale. Un equilibrio che non va confuso con la sola solidità difensiva, perché la Fiorentina è una macchina da gol, alimentata da una produzione di occasioni enorme (terzo miglior attacco, quinto per xG creati) e da una straordinaria capacità di integrare i nuovi arrivi – Bove, Adli, Gosens, De Gea, Gudmunsson, lo stesso Kean – nel nuovo sistema di gioco.

Già al Monza Palladino aveva dimostrato di avere talento e intuizioni brillanti, con una grande cura per la fase d’attacco. La prima rosa che ha raccolto al suo arrivo in Serie A come allenatore era particolarmente tecnica, con Sensi e Rovella a centrocampo e un’ala come Ciurria riconvertita a esterno, e infatti aveva una fase offensiva nettamente superiore a tutte le squadre della parte destra della classifica. Nella scorsa stagione invece ha dovuto reinventarsi a partire da una rosa meno tecnica, meno talentuosa in senso assoluto, e con meno controllo sulla palla. Ne è venuta fuori una versione meno scintillante, esteticamente meno appagante, ma ugualmente efficace: in due stagioni il Monza è stato in tutto e per tutto una squadra di metà classifica. 

Per un club, insomma, avere un allenatore capace di dotare la sua squadra di un’identità chiara e riconoscibile è un punto di forza impagabile, una certezza alla quale aggrapparsi in ogni momento. È da loro che i dirigenti partono per costruire il modello di business. Negli anni l’influenza di chi va in panchina è diventata sempre più forte, sempre più evidente. L’ultima sessione di mercato lo dimostra. Gasperini sapeva che la sua Atalanta, per come era costruita, avrebbe avuto bisogno di un centravanti d’area per funzionare al meglio, così dopo l’infortunio di Scamacca la dirigenza è andata forte su Retegui, attuale miglior marcatore del campionato. Allo stesso modo, il Napoli ha dovuto ristrutturare la sua rosa con piccoli accorgimenti perché era già in linea con le idee di Antonio Conte, ma è andato a pescare sul mercato il pretoriano Lukaku, poi McTominay e Gilmour per rinforzare il centrocampo e Buongiorno per assicurarsi la stabilità difensiva che il tecnico avrebbe cercato fin dall’inizio. A dimostrazione che gli allenatori e le loro idee, quindi l’identità che riescono a trasmettere a una squadra, sono diventati la base dei successi di una squadra e di un club.