Una nuova vita in Arabia Saudita, intervista a Giacomo Bonaventura

L'Atalanta, il Milan, la Fiorentina, la Nazionale e ora l'Al-Shabab: il racconto di una lunga carriera, le ragioni di un trasferimento nel Paese che vuole cambiare il calcio.

La prima volta che ho visto Giacomo Bonaventura rientrava all’Atalanta da un prestito al Padova, dove faceva coppia a centrocampo con Vincenzo Italiano. Jack trova Colantuono, che è uno stress test: è uno pretenzioso con i giovani, li martella. Tanti soccombono, ma lui diventa l’esterno sinistro titolare. «Il Cola è stato fondamentale per la mia formazione. A volte scontrarsi con lui è stato utile…», racconta Bonaventura nell’intervista realizzata in collaborazione con Cronache di Spogliatoio. Quattordici anni fa s’intravedeva il calciatore di oggi. Uno che non molla mai, che si adatta a ogni ruolo pur di stare in campo. E che ama tre cose: la sua famiglia, la chitarra, i viaggi. È stato a New York, ma mica andava a fare il turista classico: andava alle messe gospel a Harlem. Ecco perché l’approccio in Arabia Saudita di Jack è da curioso. Escursioni nel deserto, prova il cibo arabo (l’Umm Ali il suo preferito), raccoglie pure la pallina al match di Sinner. «C’erano 5000 persone al torneo, Sinner giocava contro Alcaraz. Ero lì tranquillo a godermi la partita e la palla è cascata in mano a me. Ovviamente vengo inquadrato e iniziano ad arrivarmi mille messaggi dall’Italia. Una coincidenza incredibile».

Ⓤ: Cosa ti ha fatto pensare che questo era il momento giusto per andare a giocare in Arabia Saudita?

Ho sempre giocato in Italia ma parallelamente ho sempre desiderato un’esperienza all’estero. Il mio contratto con la Fiorentina era scaduto, un po’ di club si facevano vivi, ma nessuno concretamente, dicevano che attendevano di capire se avevano qualche esubero. Poi sono iniziati i ritiri e stavo iniziando a innervosirmi. A quel punto mi è arrivata la proposta dell’Al-Shabab, mi ha chiamato il direttore sportivo, Domenico Teti. Ci ho pensato poco, ho preso e sono andato.

Ⓤ: Com’è stato l’impatto con la nuova realtà?

Ero già stato qui l’anno scorso con la Fiorentina per la Supercoppa Italiana e avevo visto che c’era tanta passione per il calcio, ma senza la pressione che c’è da noi. Quindi sono venuto qui da curioso. Riyad è una città città bellissima, sta diventando spettacolare. All’inizio andavo a vedere la città, i ristoranti, andavo un po’ in giro. Adesso vivo in un compound dove dentro c’è tutto: ristorante, palestra, supermercato.

Ⓤ: E il calcio, a che livello è?

A livello tattico le squadre sono preparate. Il ritmo è un po’ più basso rispetto all’Europa, ma questo è dovuto anche al clima. Ogni squadra può avere otto stranieri e qui stanno venendo grandi giocatori, dunque il livello è buono. La percezione che hai qui è una grande voglia di crescere, costruire nuovi stadi, migliorare le strutture, anche perché l’obiettivo è il Mondiale del 2034. Tutta questa energia è fonte di grande stimolo per noi giocatori.

Ⓤ: Come si è posto il mondo arabo nei tuoi confronti?

Benissimo, qui la gente è di un’ospitalità impressionante. Quando vai in giro e vedono che non sei saudita, ti dicono sempre “Welcome to Saudi”, non mi immaginavo questa cosa. Poi c’è l’altra componente, quella del calciatore, sento l’ammirazione verso di me. Mi guardano come un esempio, studiano come mi comporto, come lavoro, hanno voglia di capire, di imparare.

Ⓤ: Jack, ho in mente la tua ultima immagine nel nostro campionato. Tu che entri a testa bassa in Atalanta-Fiorentina giocata a fine campionato e non riesci a giocare, tanta è l’amarezza per la terza finale persa.

Non ce la facevo proprio. A Italiano è bastato uno sguardo per capire che stavo a pezzi, ormai ci capivamo al volo. Perdere la terza finale è stata dura, anche perché quando vinci entri nella storia di un club, il tuo nome è scritto lì per sempre. Così ti ricordano, ma in modo diverso.

Ⓤ: Di recente Barella ha detto che dopo aver perso due finali ha per un attimo pensato di smettere. Tu ci hai pensato? E in assoluto che rapporto hai con la salute mentale dell’uomo che c’è dietro al calciatore?

No, io sinceramente non ci ho mai pensato. Sto male, ma poi riparto: è quando perdi che cresci. Ricordo di aver sofferto prima di affermarmi, ero tormentato, ma penso che farcela da solo ad andare avanti è una cosa che ti resta attaccata e ti insegna qualcosa per sempre. Non ho mai avuto uno psicologo, ma capisco benissimo chi si avvale di questi aiuti: a volte sfogarsi senza avere il timore di essere giudicato può aiutare.

Ⓤ: Tornando a Firenze, tu hai avuto Italiano sia come compagno a Padova, sia come allenatore a Firenze. Che cambiamenti hai visto?

Nessuno (ride, nda). A Padova giocavo a centrocampo al suo fianco e lui era già allenatore. Mi diceva “stai”, “vai su”, “vai là”. Come allenatore a Firenze mi son divertito tantissimo con lui, abbiamo giocato un calcio che a me piace, divertente, sempre all’attacco, a pressare tutti. Se penso ai tre anni insieme credo che ci sia mancata solo la finalizzazione. Con Vlahovic eravamo quarti, poi sono arrivati buoni giocatori ma nessun finalizzatore era al suo livello. Dall’esterno, Italiano sembra una matrioska di Conte, nel senso che appare come uno che a volte cerca lo scontro per tirarti fuori il meglio. Sì, ogni tanto va allo scontro, ma a me piace questo di lui, nel senso che quando vai allo scontro ne esce fuori qualcosa di meglio. Ma non porta rancore, ci si chiarisce e finisce lì. La critica a volte fa male, ma molte volte ti fa riflettere e ti fa pensare.

Ⓤ: Facciamo un passo indietro. Ti affermi a Bergamo e trovi due figure chiave in quel percorso: Colantuono e Doni.

Bergamo è stata importante perché ho imparato il lavoro duro e la disciplina: prima Favini, poi Colantuono mi hanno fatto diventare un uomo. Cristiano Doni era il capitano, aveva una personalità e una classe da top player. Gli chiesi il permesso di prendere la maglia numero 10 e mi rispose: vai, prenditi le tue responsabilità. Fu una grande iniezione di fiducia.

Ⓤ: Quale campione ti ha lasciato di più di quelli con cui hai giocato?

Ne dico due: Ibrahimovic e Ribery. Ma ho cercato di imparare qualcosa da tutti i miei compagni. Ho giocato con tanti campioni e penso che oltre alla tecnica la cosa più importante per un giocatore sia il carattere.

Ⓤ: Ci racconti quella notte in cui sei stato un minuto prima dell’Inter e quello dopo del Milan?

Con l’Atalanta eravamo d’accordo che era arrivato il momento per me di fare il salto e dunque parlavamo da tempo con l’Inter, ma prima di chiudere dovevano sistemare alcuni esuberi. I giorni passavano e ormai ero sereno all’idea di restare a Bergamo. Ero negli uffici di Percassi a Milano, l’ultimo giorno di mercato perché comunque sapevamo che l’Inter poteva telefonarci, e invece ci chiama Galliani: vuoi venire al Milan? Erano le nove di sera. In tempo record i club hanno trovato l’accordo e io con i rossoneri.

Ⓤ: A Milano hai avuto un rapporto speciale con Sinisa Mihajlovic.

Che fatica per conquistarmelo però! Lui all’inizio ti appare come un duro, ma io volevo entrare nelle sue grazie. Mi ricordo che andiamo in tournée in Cina, fa caldissimo e lui spinge sulla preparazione, ci fa fare tantissima corsa e io avevo problemi a un polpaccio ma non volevo mollare. Praticamente zoppico, non corro, ma arrivo alla fine. Sinisa mi si avvicina e mi fa i complimenti. Ecco, è come se il suo cuore avesse solo una corazza ma è gigante. Quando ci entravi, avevi la sua fiducia totale.

L’esperienza più lunga e significativa di Bonaventura, ovviamente a livello professionistico, è quella con il Milan: sei stagioni tra il 2014 e il 2020, in cui ha accumulato 184 presenze e 35 gol in tutte le competizioni (Oliver Morina/AFP/Getty Images)

Ⓤ: Ho in mente la tua immagine, stile Iniesta al Camp Nou, nella tua ultima partita con il Milan, che resti nello stadio vuoto, scalzo, a prenderti le ultime emozioni.

È così, sapevo che era la mia ultima volta e non me ne volevo andare da quello stadio fantastico. Avrei voluto che quella partita non finisse mai: quello stadio ti dà una carica che difficilmente trovi altrove, per quanto anche a Firenze ho trovato una grande atmosfera. Sono cresciuto sognando di giocare a San Siro: sono partito da un paesino delle Marche e ci sono arrivato.

Ⓤ: Hai giocato in tantissimi ruoli mantenendo sempre uno standard notevole ma hai solo 18 presenze in Nazionale. È un rammarico o hai accettato?

Ho accettato, nel senso che ho le mie responsabilità nel non essere riuscito ad impormi prepotentemente. Poi il periodo storico della Nazionale in generale non mi ha aiutato. Adesso però li vedo e penso che sia un bel gruppo, possono fare bene. Ma potrei fare bene ancora anche io (sorride, nda).

Ⓤ: Quel giovane Jack che avevo conosciuto a Bergamo amava la musica, Oasis e Coldplay su tutti.

La musica in generale è il mio compagno di viaggio durante viaggi, ritiri. Ascolto di tutto, hip hop house, musica classica… dipende dal mood.

Ⓤ: E la chitarra?

È rimasta in Italia, ma ne comprerò una qua. Mi piace suonare la sera, mi rilassa. Anzi, mi rilasso solo quando gioco e quando suono.

Da Undici n° 59