Cambiare allenatore serve a qualcosa?

A breve termine può essere una scelta giusta. Ma il problema sta nelle società, nella loro mancanza di programmazione.

Cambiare allenatore in corsa vuol dire riconoscere di aver sbagliato la scelta in estate. A volte è un atto di umiltà, di consapevolezza. In altri casi si tratta di un tentativo, spesso isterico, di cercare la soluzione più facile e immediata per calmare la tifoseria durante una crisi di risultati.
Come sempre, però, bisogna partire dalla storia – e quindi dai dati oggettivi – per individuare un trend. Cambiare allenatore serve? Sembrerebbe di sì:
guardando alla Serie A, dalla stagione 2021/22 c’è stato un miglioramento effettivo del rendimento nel 69% dei casi; 22 cambi di panchina (su 33 complessivi) hanno determinato un miglioramento della media punti per match. Marco Giampaolo, per esempio, subentrò in corsa a Roberto D’Aversa nella Sampdoria 2021/22. E alla fine la salvò, portando la media punti a uno per match (il suo predecessore aveva una quota di 0,91 punti a partita).  Al di là di queste statistiche, non si può ignorare che un cambio in panchina impatti in modi non misurabili numericamente, si pensi per esempio alla scossa emotiva che arriva grazie all’arrivo di un nuovo allenatore. Oppure al fatto che i calciatori non abbiano più l’alibi di chi siede in panchina: se continuano a sbagliare con un nuovo tecnico, significa che sono loro i primi responsabili.

Partendo da qui, è facile arrivare al caso della Roma: con Ranieri, i giallorossi sono arrivati al terzo allenatore in tre mesi. Come tre squadre della scorsa stagione: l’Empoli, dopo quattro sconfitte in quattro partite con Paolo Zanetti, prese prime Andreazzoli (0,81 punti di media) e poi Davide Nicola, cintura nera in situazioni d’emergenza, che mise insieme 1,28 punti per match; la stessa cosa ha fatto l’Udinese, passando da Sottil a Cioffi (entrambi sotto il punto di media a partita), per poi affidarsi a Cannavaro, che ha raggiunto la salvezza nelle ultime sei partite. Il triplo cambio non ha portato frutti al Napoli, che da Rudi Garcia a Mazzarri a Calzona ha solo peggiorato il proprio rendimento, chiudendo il campionato fuori dall’Europa e lontano dai propri obiettivi.
In quel caso c’era però una situazione che sarebbe stata al limite dell’impossibile per qualsiasi allenatori: se n’erano andati Spalletti e Giuntoli, le due anime dello scudetto fuori dal campo, Osihmen ha iniziato a fare i capricci e la squadra ha perso qualsiasi tipo di riferimento. Tattico, emotivo, societario.

Ecco, appunto: le società, intesa come dirigenti. Sono loro che dovrebbero dare tempo e modo di lavorare agli allenatori. Sono loro che dovrebbero pianificare la squadra insieme col direttore sportivo e con il tecnico, per poi lasciargliela gestire. Amalgamare un gruppo di lavoro, che non è fatto solo dai calciatori, ma dall’intera area sportiva, richiede tempo e impegno. Soprattutto le squadre che non hanno impellenza di vincere subito dovrebbero dare margine di manovra ai loro tecnici. E qui c’è da fare una riflessione sulla classe dirigenziale italiana, che in diverse realtà è scadente. Pensare che direttori sportivi come Maldini, Tare, Burdisso, Balzaretti non lavorano, e che Massara è dovuto emigrare, è abbastanza surreale. Figure del genere servono proprio a coadiuvare l’allenatore, a proteggerlo.

Un esempio virtuoso è quello di Bergamo. Ogni mattina la proprietà dell’Atalanta, nel nome di Luca Percassi, alle otto del mattino arriva in ufficio, gestisce tutto il lavoro, segue l’allenamento. E se qualcuno della squadra ha bisogno di parlargli, sa dove trovarlo. La stessa cosa la fa Tony D’Amico, il direttore sportivo del club bergamasco. La società è presente, e per tutti i dipendenti del club è un segnale molto importante. Gasperini è sicuramente un grandissimo allenatore, ma il suo lavoro sarebbe molto più complicato se ci fossero malcontenti generati da una società poco presente e poco reattiva. In conclusione: cambiare allenatore fa bene? Nel breve sì, può dare dei risultati. Ma fidarsi alla lunga di un tecnico, appoggiarlo, dargli un tempo minimo di lavoro (un anno o forse anche tre), sarebbe decisamente più saggio.