Il giorno in cui è iniziata la leggenda di Ancelotti al Milan

Un estratto del libro Kolossal Milan. Gli anni 2001-2009, di Giuseppe Pastore, edito da 66thand2nd.

Si dice che non bisogna mai tornare nei posti dove si è stati felici: per un allenatore è ancora più vero. Prendete Sacchi e Capello, che a metà anni Novanta hanno commesso l’errore di farsi prendere dalla nostalgia e sono andati a schiantarsi uno dopo l’altro contro un Milan senza capo né coda. Carlo Ancelotti li conosce bene. Eppure è proprio quello che sta facendo, pensa, mentre si fa lentamente la barba prima di uscire di casa: sta tornando a Parma, di cui è già stato allenatore buono ma non ottimo, non abbastanza per essere confermato, dal 1996 al 1998. A soli quarantadue anni è già la rappresentazione plastica della parabola discendente. Il Parma sta perdendo colpi, ha venduto Buffon e Thuram alla Juventus e l’idea era di sostituirli soffiando a peso d’oro Toldo e Rui Costa alla Fiorentina. Ma invano: il blitz non è riuscito, i giocatori hanno rifiutato il trasferimento, Parma rimane sempre una piazza di secondo o terzo piano per i big. Capello, per esempio. Nel 1996 aveva già sottoscritto una bozza d’accordo con il presidente Pedraneschi, aveva già dato il suo assenso informale ad allenare una squadra di smisurate ambizioni a caccia del primo scudetto, era andato a cena a fine marzo per limare gli ultimi dettagli, poi: mi dispiace, non vengo più. Leggenda vuole che dopo la cena fosse stato assalito dalla depressione alla vista delle vie del centro, spente e desolate. E allora il Parma dovette ripiegare… su Ancelotti.

Ancelotti ha guardato Torino-Milan in tv insieme all’amico Villiam Vecchi, il portiere della Fatal Verona, reggiano anche lui nonché preparatore di fiducia. Poi alla Domenica Sportiva ha sentito il suo futuro presidente annunciarlo alla guida della decima in classifica della Serie A, a due punti dal quartultimo posto, con giocatori senza sale come Micoud o Milošević o incompiuti come Hidetoshi Nakata, che la Roma ha sbolognato senza troppi rimpianti, pur essendo entrato nei due gol-scudetto nello scontro diretto contro la Juve… di Ancelotti. Pochi minuti dopo ha risposto alla telefonata di Gigi Buffon, con cui aveva condiviso un bel pezzo di via Emilia, e gli ha confermato: sì, mi presenteranno martedì o al più tardi mercoledì. Firmerà un quadriennale con ingaggio da top manager, la sostanziale messa nero su bianco dell’errore che i Tanzi avevano commesso nel 1998 a mandarlo via: un enorme cospargersi il capo di cenere.

Lunedì 5 novembre Carlo Ancelotti si è svegliato presto. Vive da anni immerso nella quiete di Felegara, Emilia profonda, in una bella villa con tanto di elisuperficie per desiderio della moglie Luisa, unica donna d’Italia a saper pilotare un elicottero da sola. Ha accompagnato il piccolo Davide a scuola e poi si è diretto verso Collecchio, a dieci minuti da casa. Forse, a saperlo prima, sarebbe passato dall’amico barbiere Elmer Fontana a farsi dare una spuntatina: ma purtroppo è lunedì. Ha appuntamento con Tanzi, ma quando arriva una segretaria lo prega di aspettare: il presidente è in riunione, ne avrà ancora per un’oretta. La cortesia del messaggio lo induce a pensare che la faccenda possa portar via più tempo del previsto, così Ancelotti decide di tornare a casa e aspettare con più agio la seconda convocazione. O forse c’è qualche altro intoppo? Cos’ha da fare Tanzi di meglio che assumere l’allenatore della sua squadra che è un cavallo scosso da dieci giorni? Mentre è in macchina a borbottare, gli suona il telefono. «Ah, il presidente ha già finito» fa in tempo a pensare ad alta voce, quando si accorge che sul display è comparso un numero sconosciuto. O forse conosciuto troppo bene. «Ancelotti, dov’è? Ha già firmato?».

Non è vero che ci sono attimi più lunghi degli altri. Questo può eventualmente succedere in quei B-movie con i wormhole e i tunnel spazio-temporali per darsi un tono di fantascienza adulta, ma non nella provincia di Parma. Però è vero che nella nostra vita i momenti che fanno volume si dilatano col tempo, e più ci torniamo con la mente più ci sembrano infiniti. Nella Recherche, Proust ci mette trenta pagine a descrivere gli istanti in cui si gira e si rigira nel letto in preda ai suoi pensieri. Così vent’anni dopo tra la domanda di Adriano Galliani («Ha già firmato?») e la risposta di Ancelotti possiamo immaginare che siano trascorse ore, un ciclo completo di stagioni, una vita intera, il Novecento di Bernardo Bertolucci. Invece tra la risposta di Ancelotti e la controreplica di Galliani, abituato a pensare in fretta e parlare in fretta come il Mister Wolf di Tarantino, ci passa a malapena lo spazio per un filtrante di Rui Costa. «Non ancora, dottore. Ma ci siamo quasi. Ora sono in macchina». «Allora si fermi e si chiuda in casa». «…». «Stiamo arrivando. Io e Braida. Ora spenga il telefono».

Quella mattina Fatih Terim è salito su un aereo Milano-Istanbul con la consegna di tornare a Milanello il giovedì per la ripresa degli allenamenti. Come i mariti traditi che hanno la maggior parte delle colpe è il più all’oscuro di tutto. Sta tornando a casa per fare da relatore a un convegno di manager in un grande hotel della città, argomento: la gestione umana di uno spogliatoio di calciatori. 50 mila dollari di cachet: chi può essere più convincente del primo turco dipendente di Berlusconi? Eppure da settimane i suoi collaboratori stentano a riconoscerlo, osservandolo in controluce sempre più silenzioso e depresso, guardato a Milanello «come le mucche guardano i treni», ha confidato un anonimo rossonero ad Alberto Costa del «Corriere della Sera». Alla fine del convegno, mentre è ancora lì che stringe mani e si intrattiene coi presenti, viene raggiunto da una telefonata dall’Italia: dall’altro capo c’è sempre Galliani, gelido come un sicario.

Terim vivrà lo smacco in maniera furibonda, infuriato perché l’hanno licenziato senza nemmeno guardarlo in faccia: voglio tutti i soldi fino all’ultima lira, pretenderà appena tornato a Milano, prima di ridiscendere a più miti consigli nel giro di qualche ora. I giornali locali, che con Inzaghi ce l’hanno da due anni, da quando si è guadagnato un rigore molto generoso a Euro 2000 contro la Turchia, accuseranno Superpippo di aver sbagliato apposta. Il quotidiano sportivo «Fanatik» pubblica lo stemma del Milan barrato con una croce e titola: «Ora hai 65 milioni di nemici». A Kahramanmaraş, profonda Turchia orientale, verrà avvistato un negozio di articoli sportivi con esposto il cartello: non vendiamo più prodotti del Milan.

«Ancelotti, si ricorda cosa mi disse il 19 maggio 1992?». «Mi ricordo, dottore». «Allora me lo dica». Ancelotti tira un lungo sospiro, sensibile alla mozione degli affetti e della memoria. «Amichevole Milan-Brasile. La mia partita d’addio al calcio. Due giorni prima avevo giocato la mia ultima a San Siro: MilanVerona 4-0, entro dalla panchina a metà secondo tempo e faccio due gol. La mia prima doppietta in Serie A. Voto sulla Gazzetta: 10. Due sere dopo a San Siro ci sono 60.000 spettatori, nonostante la pioggia. Prima della partita Berlusconi mi abbraccia e mi indica il cielo: ha visto, Carletto? A quanto pare anche lassù qualcuno si è commosso. Dopo la partita mi avvicino a lei e le dico: quando avrete bisogno di un allenatore, vi darò la precedenza». «Bene, si dà il caso che adesso abbiamo bisogno di un allenatore». Apre la valigetta. Ciò che c’è dentro non emana una strana luce dorata come quella di Vincent Vega, ma è più prosaicamente un contratto fino al 30 giugno 2004.

Da lontano, Luisa sorride: è sempre bene andare dove ti porta il cuore, ma con cinque miliardi di lire a stagione il viaggio è ancora più confortevole. «Ci ho pensato tutta la notte» aggiunge Galliani mentre estrae la stilografica delle grandi occasioni, e spiega che nella primissima mattinata ha strappato il sì di Berlusconi, pure lui stufo delle mattane di questo turco immarcabile. Come due amanti felici di ritrovarsi, il contratto lo firmano sul primo posto utile, che si scopre essere il tavolo della cucina, tra una fetta di culatello e un bicchiere di Lambrusco. Carletto non ha mai rinunciato alla propria natura di buona forchetta nemmeno nei momenti professionali più alti. «E dunque, amico mio, dov’eravamo rimasti?». Ad Ancelotti, improvviso e incontrollabile, torna in mente un flash dei lunghi pomeriggi di Italia 90 quando, nello stereo del pullman che portava la Nazionale allo stadio Olimpico, lui e il principe Giannini imponevano sempre un’infinita compilation di Antonello Venditti. «Dottore, amici mai!». Che certi amori non finiscano, ma facciano dei giri immensi e poi ritornino, Adriano Galliani avrà da ripeterlo parecchie volte di lì ai successivi quindici anni.

Un estratto del libro Kolossal Milan. Gli anni 2001-2009, di Giuseppe Pastore, edito da 66thand2nd.