Eccoci qua, un’altra volta tutti pazzi per l’America’s Cup. Con gli occhi gonfi di stupore nel vedere queste barche a vela che volano sul mare di Barcellona come aliscafi, condotte da uno strano equipaggio dove i timonieri sembrano top gun e sulle quali quattro degli otto componenti della ciurma non sono velisti, ma ciclisti che pedalano senza mollare mai, altrimenti tutto si ferma. Questa è solo la vetrina della 37esima edizione della regata più famosa del mondo, che in Italia chiamiamo anche Coppa America o più semplicemente la Coppa. La sostanza, ovviamente, è molto più densa. La vela è uno sport multiforme: si regata tutto l’anno, tutti gli anni, in tutto il mondo e attorno al mondo con una quantità infinita di classi. La vela c’è pure alle Olimpiadi, ma pochi ci fanno caso. Insomma, la vela non è solo l’America’s Cup, anzi. Però quando arriva lei, la Coppa, non ce n’è. Non solo i velisti e gli addetti ai lavori si voltano a guardarla, ma, appunto, tutti.
La lotta per la conquista di questa vecchia brocca d’argento che ha 173 anni (non c’è altro trofeo sportivo con una storia così lunga tra tutti quelli che ancora si disputano) affascina anche chi sa dell’esistenza delle barche a vela solo quando d’estate le guarda distrattamente dal suo lettino sotto l’ombrellone. Per dare una prima, superficiale, spiegazione di questo eccezionale fenomeno si può dire che la Coppa America è… la Coppa America. Punto. Sembra tanti altri sport, ma è diversa da tutti. Per i parrucconi della vela, l’America’s Cup non è neanche vela. Però, se si vuole davvero capire perché riesca a catalizzare un pubblico universale, non basta dire che è un evento unico nel suo genere. Nella Coppa America c’è storia, tradizione, personaggi e anche semplicità (perché a differenza di tante altre regate ci sono i match race, due barche che si sfidano, una vince l’altra perde). Ma, in fin dei conti, questi sono gli stessi ingredienti che si trovano alla base di qualsiasi grande evento, deve esserci qualcosa di più. A distinguere la Coppa America è il progresso tecnologico, che è esasperato, inarrestabile, frenetico. Ecco, allora sì che ci troviamo davanti a qualcosa di veramente eccezionale.
AC75 è l’attuale classe di barche, prototipo, dell’America’s Cup. È talmente complessa da progettare, costruire e non ultimo condurre, che non è per tutti. Senza parlare dei costi. Realizzarne una rappresenta il primo grande ostacolo per chi ha intenzione di costituire un team per partecipare alla Coppa, per il quale è necessario un budget medio di 200 milioni di euro spalmato su una campagna della durata di circa tre anni alla quale lavora un personale di oltre cento persone tra velisti, progettisti, costruttori, logisti, tecnici di vario genere e personale d’ufficio. Per questo non ce ne sono molte e chi le timona fa parte del gotha mondiale della vela. I più forti sono tutti là, basta citarne due: l’inglese Ben Ainslie, che con quattro ori e un argento olimpici è il velista più medagliato della storia; l’australiano James Spithill, titolare del record di vittorie nelle singole regate di America’s Cup, alla quale ha partecipato otto volte vincendola due – non fatevi ingannare: un bilancio così è assolutamente positivo in Coppa America.
La prima generazione di AC75 l’abbiamo vista in azione nel 2021 ad Auckland, in Nuova Zelanda, dove i kiwi difesero con successo la Coppa nel match contro la nostra Luna Rossa. I modelli di tre anni fa sembrano già obsoleti. Quelli attuali hanno ovviamente la stessa caratteristica generale e la particolarità di navigare appoggiati sui foil, le ali che fanno correre le imbarcazioni con la carena sollevata dall’acqua come aliscafi, ma i nuovi studi progettuali hanno restituito scafi totalmente rivoluzionati dal punto di vista aerodinamico. Eccola qui un’altra esasperazione dell’evoluzione delle barche di Coppa, dove l’aerodinamica ha raggiunto un’importanza di pari livello dell’idrodinamica. Chi l’avrebbe mai detto, trattandosi di barche a vela.

L’America’s Cup la conquista sempre l’imbarcazione più veloce, non esistono botte di fortuna, lo dice la storia. Ma se è vero che un equipaggio forte non può quindi fare la differenza e vincerla con un mezzo inferiore, è altrettanto certo che un equipaggio non preparato può mandare all’aria un lavoro di tre anni (anche più, nel caso di team con un’esperienza più lunga e non alla prima partecipazione). Per fortuna gli uomini a bordo conservano ancora un ruolo rilevante in un evento dove la prestazione del mezzo è fondamentale. Alcuni aggiornamenti al regolamento di classe, che riguardano proprio la componente umana, hanno reso gli AC75 di oggi ancora più straordinari. Per timonarli, regolare le vele e controllare il loro assetto servono sempre i più forti velisti del mondo, ma nella composizione dell’equipaggio di otto persone ci sono ora anche quattro ciclisti che con la forza delle loro gambe producono ininterrottamente 2000 watt di energia elettrica costante per 20 minuti, la durata media di una regata. Tutta questa potenza serve a mettere in funzione i sistemi di manovra a bordo, tra cui la movimentazione delle vele e dei foil.
Rispetto al 2021 le barche sono più efficienti, il che significa veloci. Come vuole lo spettacolo. Nel 2024 in Coppa America si viaggia normalmente tra i 40 e i 50 nodi, quindi tra i 75 e gli oltre 90 chilometri orari. Sono numeri da Moto GP, ma resta una regata di barche a vela. Qualcuno potrà anche storcere il naso, ma le barche dell’America’s Cup hanno un’evoluzione più veloce anche rispetto alle macchine di Formula Uno, giusto per fare il confronto con uno sport al quale la Coppa è spesso paragonata. Sono all’avanguardia ma non sono il frutto del progresso: lo anticipano. Basta guardarle regatare per avere la sensazione di viaggiare nel futuro, perché la sensazione che trasmettono è di mistero. Si fa fatica a comprenderle e a come riescano a navigare. Se mettiamo di fianco una Formula Uno del 2007 (un anno non scelto a caso, stiamo per vederlo) e una recente, notiamo che sono differenti. Ma neanche così tanto, se non si entra proprio nei dettagli. Se invece confrontiamo una barca dell’America’s Cup disputata a Valencia nel 2007, quando era convinzione comune che quella fosse l’edizione più bella della storia della Coppa, con una di oggi, è da ssubito lampante che sono due pianeti lontani anni luce: uno scafo dislocante di 25 metri, con diciotto persone a bordo e con una velocità normale, la prima; volante, lunga 21 metri, con un equipaggio di otto elementi che la conduce a un’andatura cinque volte superiore, la seconda. Soprattutto, 17 anni fa, se uno yacht designer avesse scarabocchiato su un foglio di carta le linee di un AC75, sarebbe stato scambiato per l’illustratore di una graphic novel di fantascienza.
Il bello è che non finisce qui. Già in questi giorni, chi pensa di vincere la 37esima Coppa America e, come da regolamento, deciderà dove, quando e come si disputerà la prossima edizione, sta studiando come saranno le prossime barche e che equipaggi dovranno avere. Potrà essere una terza generazione di AC75 oppure qualcosa che è ancora una volta per tutti noi oggi impensabile. Chi difende la Coppa ha due obiettivi: vincere di nuovo e continuare a strabiliare il 182 mondo. Altrimenti, non è America’s Cup.