Il giorno del suo 19esimo compleanno, il 3 giugno 2005, Rafa Nadal batte, nella semifinale del Roland Garros, Roger Federer. Allora Federer è già Federer, è il numero uno del mondo, ha già sollevato quattro volte i trofei degli slam. Nadal è numero cinque del mondo ma non ha mai vinto né lì, né a Wimbledon, né in Australia o a New York. Quel giorno Nadal bussa per il suo ingresso nella Storia. In quel momento saltano agli occhi soprattutto le differenze tra quei due mondi in collisione tra loro. Nadal viene descritto come un «animale da combattimento spagnolo», un «mangiatore di terra battuta», si percepisce già chiaramente che si sente a casa propria quando sferza la palla a Montecarlo, a Barcellona o quando a forza di colpi mancini costringe gli avversari ad allontanarsi in fondo al campo agli Internazionali di Roma. L’altro viene raccontato con immagini e metafore molto diverse, è «il computer svizzero», sempre con completi eleganti, dentro e fuori dal campo. Anche se all’epoca sono entrambi vestiti Nike, uno indossa una canottiera e dei pantaloni a pinocchietto (lo chiamano Canotta kid), l’altro sembra pronto per una serata di gala.
Nadal allora ricorda inevitabilmente Agassi, soprattutto per l’energia incontenibile tra le righe del campo, per la presenza scenica, i bicipiti mostrati alle telecamere, per un look vagamente trasgressivo. Uno, Nadal, appare sempre sudato, trasandato, l’altro, Federer appare impeccabile, senza sbavature, a fine match non ha un capello fuori posto. È la differenza tra la Spagna e la Svizzera, pensa qualcuno. Tra l’artista e il guerriero, pensano altri. Per David Foster Wallace si contrappongono «la maestria clinica e intricata del Nord» al «machismo passionale del Sud Europa». Al termine di quella partita Nadal commenta: «Aver battuto Federer? Incredibile». Oggi che Nadal ha annunciato il ritiro, come ha fatto Federer, sono pronti per tornare di nuovo uniti, come quando un coniuge muore e l’altro si spegne poco dopo, per un segreto desiderio di raggiungere l’altra metà.
L’arrivo di Nadal nel circuito è dirompente. Rispetto a Federer, che è la tradizione, Nadal rappresenta la modernità. Traghetta il tennis in un futuro che lì per lì si fa fatica ad immaginare, cioè il tennis di oggi, con i suoi Alcaraz, i suoi picchiatori da fondo campo, una longevità e una forza poco umane. L’anno dopo quella partita e il suo primo successo a Parigi, elimina proprio Andre Agassi a Wimbledon. Agassi si ritira pochi mesi dopo, finiti gli US Open. È un tipico passaggio di consegne del tennis, fatto di spiriti in attesa di reincarnarsi. Finché un giocatore non appende la racchetta al muro, lo spirito non può impossessarsi del corpo di un altro campione. La festa giocosa, il carattere estroverso di Agassi prende una nuova identità, le spalle taurine di Nadal, i colori elettrici, i bermuda al polpaccio.
Il confronto con Federer ha segnato tutta la parabola del tennista nato su un’isola del Mediterraneo, l’assolata Maiorca. Dalla contrapposizione iniziale, Nadal accolto come l’antitesi di Federer, nasce poi la rivalità. Nel 2006 batte quattro volte Federer, che si prende la rivincita a Wimbledon (vinto per la quarta volta consecutiva) e solo allora può scherzare su Nadal: «Adesso mi piace di nuovo come rivale». Nadal, con i suoi tic e i suoi rituali, deve attendere il 2008 per vincere Wimbledon, stendersi nell’erba verde del vicino, l’erba sacra per tutti i tennisti. È forse la loro finale più mitizzata, una battaglia resa ancora più epica dalle condizioni atmosferiche. La pioggia interrompe due volte l’incontro, che dura quattro ore e 48 minuti, con il pubblico avvolto nei plaid per una domenica di luglio dall’aria invernale. «Il quinto set porta il match in una dimensione agonisticamente omerica», scrive Sandro Modeo.

L’ultimo atto del rapporto tra i due è la finale agli Australian Open del 2017, che riapre i conti per l’ennesima volta: vince Federer, che lo batterà ripetutamente in quella stagione. Una volta, dopo una delle tante sconfitte a Parigi, Federer confessa, forse a se stesso: «Ho creato un mostro». Il resto sono lacrime, quelle della Laver Cup, con i due eroi che si sfiorano le mani e piangono di malinconia, mentre si sente già che il sipario si chiude. Dall’addio di Federer in poi le partite di Nadal sono state poche, ancora qualche dritto mancino arrotato e dei rovesci bimani che evocano un’epoca ormai al crepuscolo. Da un certo punto in poi tutte le vistose differenze iniziali tra i due sembrano essersi dissolte, si fa sempre più fatica a riscontrarle. Anche la rivalità è evaporata. Alla fine sono fusi in un’unica figura, inseparabili, sovrapponibili. È impossibile parlare dell’uno senza riferirsi all’altro. Forse anche la presenza di Djokovic può aver contribuito a stringere il loro sodalizio nell’immaginario dei tifosi. Forse non è mai capitato che i tifosi di un tennista confluissero poi nella tifoseria del rivale.
Come lascia oggi il tennis Nadal? Sicuramente in buone mani. Il passaggio di testimone potrebbe essere stato il doppio alle Olimpiadi 2024 con l’altro spagnolo fuoriclasse, Carlos Alcaraz. A molti altri giocatori lascia in eredità l’aver trasformato il tennis in una sfida con il proprio corpo, una sfida lunghissima, estenuante. Nadal ha migliorato la qualità dello sport, con un rigore e una correttezza senza macchie, e ne ha esteso la vita. Restano gli ultimi colpi da ammirare, l’ultima Coppa Davis di Malaga, a novembre, poi saranno davvero solo ricordi e nostalgia.