Il derby intercontinentale tra Fenerbahçe e Galatasaray di sabato è andato più o meno come ci si poteva aspettare: è stata una partita bellissima, ritmi alti dal primo al novantesimo, lampi di classe purissima, occasioni da gol ogni cinque minuti, la vittoria come unico destino accettabile. I nomi dei protagonisti sono quasi tutti volti noti della Serie A o dei grandi campionati europei: c’erano Dzeko e Mertens, Fred e Tadic, Lucas Torreira e Davinson Sánchez. Questi però sembrano i nomi di chi ha abbandonato Premier, Liga e Serie A per sempre, un elenco di giocatori che non possono più ambire al massimo livello del gioco. Invece in campo c’erano anche Saint-Maximin, Livakovic, Szymanski, Osimhen. E poi sono entrati En-Nesyri, Cengiz Under, Amrabat mentre Icardi e Rodrigo Becåo non si sono alzati dalla panchina. Tutti questi giocatori avrebbero – ognuno a modo suo – ancora tempo e modo di misurarsi con i grandi campionati, da protagonisti, e magari sono in Turchia solo di passaggio. Dopo un’ora il punteggio ha forzato un cambio di scenario: il Galatasaray era avanti 0-3 e il Fenerbahçe ha dovuto sbilanciarsi per cercare il gol. È finita 1-3, il Gala ha protetto il vantaggio per andare a +5 in classifica e lanciarsi verso il bis del titolo dello scorso anno.
Era la partita più importante del campionato e il livello tecnico in campo era il più alto possibile per la Süper Lig. Un incrocio di talenti non paragonabile a nessun’altra partita in calendario. Eppure negli ultimi anni gli investimenti hanno portato in Turchia una qualità inattesa, quasi sorprendente. Nell’ultima estate sono stati spesi 135,38 milioni di euro a fronte di soli 83,56 milioni entrati dalle cessioni. Nelle due stagioni precedenti le spese sono state ancora più alte, superando sempre i 150 milioni di euro tra tutte le squadre. Spesso gli acquisti sono arrivati da Occidente, quindi da Francia, Spagna, Inghilterra, Italia. Cioè dai migliori campionati d’Europa. E per molte squadre questo denaro proveniente dalla Turchia è sembrato un salvagente, almeno quanto le offerte provenienti dall’Arabia Saudita. Anche perché erano rivolte soprattutto a parametri zero e/o giocatori a fine carriera.
La parte più sorprendente di questa storia è che il calcio turco dovrebbe essere al verde, o qualcosa di simile. Non molto tempo fa si immaginava uno shutdown del campionato, in stile Casa Bianca quando è a corto di soldi, almeno per i club più importanti: nel 2021 le tre grandi squadre di Istanbul – Besiktas, Fenerbahçe e Galatasaray – e il Trabzonspor avevano un debito aggregato di 1,7 miliardi di euro. E sono logicamente quelle che muovono più investimenti, sia nei cartellini di calciatori sia in altri settori. «I club turchi non sono sostenibili finanziariamente», aveva avvertito, pochi anni prima, l’allora presidente della Federazione calcistica turca Yildirim Demiroren. Poi l’economia del calcio segue l’economia reale e la situazione si è aggravata: al momento la lira turca vale circa 1/34 dell’euro, ma fino a pochi anni fa il tasso di cambio era 8:1. Molti club turchi si sono così ritrovati con ingaggi dei giocatori firmati in euro e dollari, mentre molte entrate, quelle derivate da biglietti e merchandising, in lire, con tutto ciò che può comportare per le casse societarie.
L’anno scorso, intervistato da The Athletic in forma anonima, un agente di una delle principali agenzie di giocatori europee aveva detto: «Il treno è uscito dai binari in questo momento, perché sono impazziti, non so dove abbiano trovato i soldi». Anche perché la lega turca non guadagna granché dalle emittenti televisive, che in tutto il mondo calcistico rappresentano la principale fonte di introiti per il club. I ricavi delle trasmissioni sono gradualmente diminuiti negli ultimi anni. La Süper Lig ha concordato in estate un nuovo accordo di trasmissione nazionale e internazionale triennale, fino alla fine della stagione 2026/27, con BeIN Sports. Secondo SportsProMedia, il valore dell’accordo non è stato divulgato, ma la cifra dovrebbe solo leggermente superiore rispetto ai circa 300 milioni di dollari del contratto precedente.
Allora come hanno fatto questi club a ripartire con investimenti così importanti per rimettersi sulla mappa del calciomercato europeo? La risposta breve è che si sono arrangiati in molti modi. I club più grandi hanno sfruttato la loro visibilità per firmare nuovi accordi di sponsorizzazione. L’estate scorsa, per esempio, il Galatasaray ha iniziato una partnership triennale da 15 milioni di euro con Socar, la compagnia petrolifera statale azera, ora sponsor di maglia per le competizioni europee. Poi ha rinnovato il principale accordo di sponsorizzazione di maglia con la società di autonoleggio Sixt, per 20 milioni l’anno. E poi ovviamente ci sono i naming rights dello stadio, venduti alla società di costruzioni Rams Global; lo stesso tipo di accordo fatto dal Trabzonspor per il suo nuovo stadio con Papara, banca turca digitale, che porterà circa dieci milioni l’anno per le prossime cinque stagioni. Altri se la cavano meglio con il player trading: il Fenerbahçe negli ultimi anni ha venduto Kim Min-Jae, Eljif Elmas, Arda Güler, non proprio l’elenco che ti aspetteresti in un campionato che viene spesso indicato come un cimitero degli elefanti. Altri ancora hanno imparato a fare di necessità virtù e hanno iniziato a generare ricchezza partendo dalle giovanili, come il piccolo Gençlerbirliği che forma e vende calciatori in serie, come una fabbrica.

Ma nessuno di questi stratagemmi può spiegare il contesto quanto il legame del calcio turco con la politica. Nel 2019, sul Sole 24 Ore, Marco Bellinazzo scriveva che è come se il patriottismo repubblicano di Kemal Atatürk si fosse trasformato in un nazionalismo militante. Le ambizioni calcistiche e ideologiche di Recep Tayyip Erdogan si sono anzitutto riversate sugli stadi. Tra il 2009 e il 2017 Ankara ha investito un miliardo di euro in 21 nuovi impianti. Nei sei anni successivi ne sono stati inaugurati altri 21. Istanbul è stata anche sede della finale di Champions League del 2023 (si era aggiudicata quella del 2020 ma venne spostata a Lisbona a causa del Covid), mentre il Paese intero si è candidato diverse volte per ospitare gli Europei, fin quando non è riuscito ad aggiudicarsi quello del 2023, da organizzare insieme con l’Italia. Alla fine la volontà di potenza di Erdogan ha avuto la meglio.
La politica mette le mani sul calcio anche per difenderne l’immagine, considerandolo una specie di riflesso della società, o comunque un barometro degli umori della popolazione. In questo momento, il calcio turco e la sua massima serie non possono permettersi un tracollo, né sportivo né economico. E per questo la politica lo sostiene. «Il calcio è così popolare in Turchia che nessuno rischierebbe che un club, in particolare uno dei tre grandi, vada in bancarotta», ha scritto The Athletic l’anno scorso. «Tutti i grandi club sono enti pubblici, e sono quotati in borsa, ma se fossero state altre società avrebbero dichiarato bancarotta molti anni fa». Negli anni peggiori della crisi economica, quando i bilanci dei grandi club hanno raggiunto una specie di punto di rottura, e il governo ha smesso di rifocillare le casse ha costretto le società a ripagare i loro debiti. Ma anche in quel caso i big-3 hanno ottenuto favori che altre aziende, al loro posto, non avrebbero nemmeno sognato: i loro debiti sono stati “ristrutturati” spesso e volentieri da banche statali a tassi di interesse favorevoli.
Sono le conseguenze sociali e politiche a fare più paura. Così i dirigenti dei grandi club sono convinti che, se un giorno la situazione dovesse precipitare, il governo li salverà: sono diventati too big to fail. E la mancanza di conseguenze – conseguenze negative – è una manna per qualsiasi imprenditore. Va detto però che tutto questo non basta a far sembrare la Süper Lig un campionato in salute. Nascondere la polvere sotto il tappeto non è mai una soluzione. Appena la scorsa primavera c’era stato quel caos osceno in Supercoppa, con il Fenerbahçe che di fatto aveva rinunciato alla partita con il Galatasaray per protesta contro la Federazione, cedendo ai rivali cittadini il titolo a tavolino.
Più in generale, nel Paese la passione per il gioco, accesissima, non sempre è ricambiata dallo spettacolo offerto in campo, né in patria né all’estero. Dopotutto, la Coppa Uefa vinta dal Galatasaray nel 2000 è l’ultimo grande trofeo internazionale vinto da una squadra turca. E al momento il campionato è decimo nel ranking Uefa, dietro anche a Belgio e Repubblica Ceca. Con i nuovi acquisti, i grandi club stanno provando a invertire una tendenza negativa, a trasformare quello che sembra un campionato alla fine della storia, relegato alla periferia del calcio, in una versione lussuosa dei campionati di seconda fascia, un’Eredivisie olandese o una Primeira Liga portoghese sotto steroidi. Prima che questa trasformazione diventi definitiva, e porti risultati concreti, potrebbe volerci ancora parecchio.