Gli occhi di Schillaci e un’estate indimenticabile

Il ricordo di un centravanti che ci ha fatto sognare, anche se solo per pochi giorni.

I miei avevano un piccolo giardino che, per alcuni campionati Europei e Mondiali, si trasformò in una piccola curva. Accadde nel 1986, momento dello storico abbraccio tra me e mio padre dopo il gol del secolo di Maradona, accadde nel 1994, l’estate di Baggio e accadde soprattutto nel 1990, dove noi ragazzi (e comunque più o meno tutti) credevamo che l’Italia allenata da Azeglio Vicini avrebbe vinto, o ci sarebbe andata molto vicina. Quando sei ragazzo pensi alla possibilità della vittoria, molto meno a quanto soffrirai per averla sfiorata, è una cosa che capisci dopo. Quell’estate eravamo organizzatissimi, non lasciavamo nulla al caso. La madre di un amico cucì delle bandane tricolori che non potevamo non indossare, prima dell’inizio di ogni partita prendevamo posto senza mai invertire le sedie, il lato rispetto al televisore cui ognuno doveva sedere, attenersi, senza sgarrare. Perfino mia madre, che non ha mai saputo nulla di calcio, aveva il suo posto, dal quale ogni tanto chiedeva quali fossero i nostri. Il cancello restava aperto, ogni tanto arrivava qualcuno, sapeva che doveva stare in piedi, di lato, senza fiatare, senza intervenire, avrebbe potuto esultare in caso di gol, ma nulla di più.

Ogni tifoso dell’Italia aspettava Luca Vialli, aspettava Giuseppe Giannini, i dribbling e i cross di Roberto Donadoni, qualche magia di Roberto Baggio – che puntualmente arrivò. Ci si aspettava perfino gol da Andrea Carnevale e da Aldo Serena. Le parate di Walter Zenga. I più romantici credevano ancora alla possibilità che quello potesse diventare il Mondiale di Roberto Mancini. Invece – come nelle migliori favole, inatteso, con gli occhi che si allargavano, che sembravano spiritati, con la corsa poco elegante, con le braccia pronte ad alzarsi una, due, tre, quattro, cinque, sei volte – apparve in quel giardino, nei parchi, in ogni condominio, casa, bar, televisore, quasi uscendo dagli schermi e andando a esultare in braccia a ogni tifoso italiano, Totò Schillaci da Palermo. Diventò il calciatore cui voler bene e, con ogni probabilità, se l’Italia non avesse perso in semifinale con l’Argentina, sarebbe stato ancora più amato.

Salvatore Schillaci è stato un ottimo attaccante e forse meritava una carriera migliore, in fondo ha vinto poco, sia alla Juventus, sia all’Inter, ed è durato ancora meno. Quando si pensa agli attaccanti degli anni Ottanta e Novanta quasi mai si fa il suo nome, lui però è l’uomo di quel mese e per quel mese tutti gli sono ancora grati. Schillaci muore fin troppo giovane, con sessant’anni ancora da compiere, forse muore da quell’estate, dalle notti magiche e allora muore ragazzo mentre stacca di testa, in mezzo a due sconosciuti difensori austriaci, su cross di Vialli.

Schillaci calciava bene di destro e di sinistro, non era un vero e proprio centravanti, più una seconda punta, ma segnava, aveva una determinazione che ad altri mancava. La stagione prima dei Mondiali ’90, la sua migliore alla Juventus e in Serie A, gli valse la convocazione di Vicini, grande intuizione, chissà quella squadra data per favorita, senza l’attaccante siciliano, quanta strada avrebbe fatto. Non ha segnato tanto, di gol ne ha fatti in C e in B, nelle stagioni messinesi, ma in Srie A ne ha fatti meno di 40. La sua stagione con il maggior numero di gol è sconosciuta ai più ed è avvenuta in Giappone, con il Jubilo Iwata, 31 gol in 34 partite, una media da Gigi Riva. La sua stagione migliore è quella giocata in serie B con il Messina allenato da Zeman, subentrato a Franco Scoglio (due personaggi incredibili che lo hanno formato e migliorato), 23 gol, era il 1989, lo comprò la Juventus,

Schillaci a volte era simpatico, altre insopportabile, ha litigato con Baggio; famosa poi la frase «Ti faccio sparare», rivolta a Fabio Poli dopo che questi (pare) gli avesse sputato. Poi Schillaci ammetteva di aver esagerato, di aver perso la testa, si scusava. Il carattere era la forza in campo e crediamo il punto debole fuori, uno con il suo talento sarebbe durato più a lungo ad alto livello, avrebbe segnato di più.

Il mese dicevamo, quel mese. Lì, Schillaci ha scritto la differenza tra sé stesso e il calciatore anonimo, segnando quei sei gol in ogni modo possibile. Di testa, saltando in mezzo a due (come detto) contro l’Austria. Ancora di testa ma di rapina – alla Paolo Rossi – contro la Cecoslovacchia, prima del raddoppio capolavoro di Roberto Baggio. Di sinistro al volo da fuori area, dopo un rilancio di Zenga, aggancio di Baggio e tocco smarcante di Serena, contro l’Uruguay. Di destro, da vero opportunista, contro l’Irlanda, dopo un tiro respinto di Donadoni. Contro l’Argentina, dopo un’azione bellissima, in cui Giuseppe Giannini si concesse un numero da brasiliano. E poi su rigore contro l’Inghilterra, nella finale per il terzo e quarto posto. Rigore che Baggio gli lasciò affinché potesse vincere la classifica dei cannonieri.

In molti e per molto tempo hanno chiesto a Schillaci perché non fu scelto tra i rigoristi della semifinale Italia-Argentina. Negli anni, ha risposto che non se la sentì perché era affaticato e non era un vero e proprio rigorista, a volte segnava, altre no. Come tutti, verrebbe da dire. Un Paese intero, partendo da quel giardino e da quelle bandane, si chiede e, qualche volta, ancora si domanda come sarebbe andata se avesse calciato lui al posto di Serena, che in pratica colpì Goycochea, il portiere argentino. Ormai è andata così. 

Segnava d’istinto, di rabbia, Schillaci, d’astuzia e di tecnica. Ricordo, forse il suo gol più bello, una rovesciata segnata al Genoa quando era alla Juve, o una ancora più bella contro il Verona, quest’ultima, una roba alla Vialli. Segnava d’astuzia, da lontano e da vicino, segnava d’anticipo, sapeva dove mettersi, dove farsi trovare. Segnava su calcio di punizione, ne ha fatti tanti così. Segnava cadendo (chi vuole cerchi un gol segnato contro l’Inter quando era alla Juve). Segnava e rideva, aveva un bel sorriso. In questo settembre Totò Schillaci è andato, speriamo di non dimenticarlo, significherà non dimenticare di essere stati ragazzi. A lui dobbiamo almeno un’estate meravigliosa, non è cosa da poco, non lo è affatto.