Non-luogo, no-logo a parte i cinque cerchi, una sorta di Città Ideale del Rinascimento in cui risiede per qualche giorno, un paio di settimane al massimo, la meglio gioventù del pianeta: i più veloci, quelli che saltano più alto, che fanno meglio qualunque gioco con la palla, che scappano via in bicicletta, i più forti nel sollevare, lanciare, atterrare il proprio avversario. Citius, altius, fortius, superlativo di tre avverbi, unito a communiter, insieme. Il motto olimpico, scritto sui muri e in ogni angolo, soprattutto lì. Al Villaggio Olimpico. Dove si fanno sogni d’oro (ma anche d’argento e di bronzo). E dove tutti sono uguali di fronte all’Olimpiade, la grande eguagliatrice. Al Villaggio non esistono stipendi, ingaggi, sponsor personali, titoli da poter accampare a mo’ di privilegio. Lì si pranza e si cena tutti insieme, si passeggia, si dorme in alloggi piccolissimi, spesso ci si ama.
Quel che nasce nel Villaggio resta nel Villaggio, molto spesso. Beh, non sempre. Narra la leggenda che Livio Berruti e Wilma Rudolph, meraviglia americana della velocità, si conobbero e per poco non si amarono a Roma 1960. Un colpo di fulmine e un amore contrastato sul nascere dagli allenatori del team Usa, che seguivano Wilma dovunque. E che all’occhialuto eroe torinese dei 200 metri dissero: «Forse è meglio di no». Il Villaggio Olimpico romano, ancora oggi esistente e anche abitato, era stato inaugurato il 25 luglio: le bandiere del Cio e delle 84 nazioni partecipanti (nel mondo globalizzato e frammentato di oggi siamo a oltre 200, la geografia è sempre ancella della storia) salirono nel ponentino al suono dell’Inno del Sole, tratto dall’Iris di Mascagni.
Quattro anni prima a Melbourne, in condizioni complicatissime per le rispettive nazionalità dei due, il martellista americano Harold Connolly conobbe la sua futura moglie, la discobola cecoslovacca Olga Fikotová. Per la prima volta, in Australia, si poté parlare di un vero e proprio villaggio femminile: venne inserito nella stessa area di quello maschile, da cui lo separava una rete metallica, con ingresso indipendente, sotto la vigilanza di soldati dell’esercito. Le sale da pranzo erano in comune e probabilmente lì scattò l’amore. Fino ad allora le donne erano sempre state alloggiate in scuole, ostelli, luoghi improvvisati. Testimoni di nozze di Connolly e Fikotova furono, nel 1957, Emil Zátopek e Dana Ingrová, un’altra coppia unita dalle Olimpiadi, cinque ori in due tra mezzofondo e giavellotto, nel bel mezzo della Guerra Fredda.
Erano tempi difficili, e lo erano anche per gli amori “olimpici”. Anche se sembrerà incredibile, solo da Los Angeles 1984 in poi sarà permesso a uomini e donne di risiedere negli stessi edifici del Villaggio, anche se in aree diverse. Niente di insormontabile, ma insomma, bisognava adeguarsi. Il puritanesimo dei Giochi è sopravvissuto per moltissimi anni a quello del suo ideatore, il misogino Pierre De Coubertin: «Lo sport femminile è la cosa più antiestetica che gli occhi umani possano contemplare», disse l’inventore delle Olimpiadi moderne. Eppure, a Parigi, nel 1900, il barone dovrà assistere al successo di una donna, Hélène de Pourtalès (nata Barbey), che gareggiava nelle acque del circolo velico di Meulan-en-Yvelines a bordo del Lérina insieme al marito, il conte svizzero Hermann Alexandre de Pourtalès, e vinse l’oro e l’argento nella classe 1-2 tonnellate contro equipaggi composti di soli uomini.
Chissà cosa direbbe ora, De Coubertin, dopo l’annuncio del Cio in vista dei Giochi di Parigi 2024: un’Olimpiade basata su una quasi perfetta gender equality. Cento anni fa una donna, Alfonsa Rosa Maria Morini, coniugata Strada, partecipava al Giro d’Italia maschile. Cento anni fa, sempre a Parigi, nasceva la prima vaga idea di Villaggio Olimpico: qualche casetta di legno montabile e smontabile sorse dalle parti dello Stadio di Colombes. La grande innovazione, allora, era il telegrafo. Per il resto gli atleti avevano anche barbiere e ufficio postale per scrivere lettere che sarebbero arrivate a destinazione dopo settimane. Ugo Frigerio vinse la 10 chilometri di marcia al grido di “Viva l’Italia” e poi, lui che era stato anche tipografo per la Gazzetta dello Sport, inviò un articolo dettandolo per telefono ai dimafonisti in redazione, a Milano.
Cent’anni sono un’era geologica, ma anche quattro sono un’enormità nel mondo di oggi. E così un’Olimpiade – letteralmente il quadriennio tra due edizioni, un’ovvietà che però il Covid ha reso meno ovvia, con la disparità creata da Tokyo 2021 – è anche la fotografia del tempo che stiamo vivendo, con i nostri oggetti, le manie del momento, i selfie, le esultanze social, le storie Instagram che hanno sepolto tutto quello che c’era prima e saranno sepolte a loro volta, presto o tardi. E tutto questo “comunicare” è iniziato quando ai Giochi si è iniziato a voler dire qualcosa anche al mondo, e quindi su quel podio di Messico ’68. Tommie Smith e John Carlos, oro e bronzo dei 200 metri, che mostrano il pugno guantato di nero e parlano, tacendo e chinando il capo davanti alla bandiera americana che sale e all’inno che risuona nello stadio. In quei giorni, poco dopo la strage di Piazza delle Tre Culture, l’appena 13enne Novella Calligaris iniziava a nuotare verso il mito. Quattro anni dopo, fuori dal blocco 31 della Connollystrasse, a Monaco di Baviera, Novella Calligaris trovò invece la guerra.

«A Monaco ’72 Federica Stabilini, che era in stanza con me, una notte mi svegliò: “Ho sentito un boato, che cosa è successo?”. E io: “Hai mangiato troppa cioccolata: dormi, non è accaduto nulla”. La mattina dopo ci rendemmo conto, ma non completamente. Avevamo avuto il permesso di rimanere al Villaggio per andare a seguire l’atletica, ma ci dissero: dovete rientrare subito in Italia. Io avevo anche la Stasi alle spalle, avevano notato che conoscevo il tedesco e mi pedinavano. Uscendo dal Villaggio notai che una nostra collega del nuoto, israeliana, piangeva. Seppi poi che il suo allenatore era rimasto coinvolto nel massacro di Settembre Nero. Noi non avevamo capito nulla». Novella Calligaris trovò anche l’amore, o qualcosa di simile, a Monaco. «Mark Spitz, proprio lui, disse “la vera rivelazione di questi Giochi non sono stato io, con le mie 7 medaglie d’oro, ma un’italiana. Novella”». Fu un flirt, qualcosa di puro, innocente, un gioco durato il tempo delle gare. «E poi a Monaco c’era la discoteca. Mai vista prima, mai stata in una discoteca. E fu incredibilmente bello dividere gli spazi con tanti grandi campioni che avevo visto solamente in televisione: Borzov, Mennea, Olga Korbut, Sawao Katō, Teófilo Stevenson.
L’Olimpiade questo fa, abbatte i confini tra persone lontanissime. Pensiamo alla cerimonia di chiusura: lì non ci sono più bandiere, tutti si mischiano in un unico grande mondo. Come a dire: ci siamo confrontati, abbiamo vinto e perso, ora diamoci la mano. Niente di più bello e grande di questo messaggio. Se solo la politica lo cogliesse». Le vie del Villaggio, 80 ettari di verde nell’Oberwiesenfeld, erano dedicate ad atleti famosi, e gli edifici numerati progressivamente: il “blocco 31” nella Connollystrasse (Connolly, proprio lui), ospitava le delegazioni italiane e israeliane. Gli alloggi per gli uomini erano distribuiti in tre blocchi di edifici di 7 o 14 piani. Alle donne erano destinati un palazzo di 19 piani e un insieme di bungalow. Non proprio gender equality, ma le serate correvano via veloci.
A Tokyo, nel 2021, il Villaggio Olimpico sulla baia era blindato, gli accessi regolamentati e riservatissimi (giornalisti fuori, per esempio), gli atleti ne erano confinati, trasportati e spostati con ogni riguardo come materiale delicato e fragilissimo da addetti in mascherina. C’erano i tamponi, i Covid hotel come gironi danteschi in cui espiare la colpa di aver solo respirato. C’era il coronavirus, non si poteva rischiare un’epidemia dentro una pandemia, eppure qualche atleta colpito ci fu, come il canottiere Bruno Rosetti, escluso a poche ore dalla finale del 4 senza, bronzo anche senza di lui. In quell’atmosfera straniante, senza pubblico ad applaudire e senza incontri possibili dopo, l’Italia vinse 40 medaglie, alcune nel silenzio più assoluto come il bronzo nel tiro con l’arco di Lucilla Boari. Il fruscio della freccia riempiva l’aria, lo si poteva percepire: lo schiocco dell’arco nei pomeriggi abbacinanti dell’estate giapponese, l’arrivo al bersaglio come uno sparo nel buio, in tanta luce. S’inventarono, i giapponesi, persino gli applausi finti nelle gare di tiro a segno.
Tutto diverso quattro anni prima a Rio de Janeiro, un’Olimpiade come un lungo carnevale, una cerimonia di apertura come un samba, il frastuono impressionante del Maracanazinho per le finali del volley, quella maschile interrotta a furor di popolo, senza il review sull’ultimo punto brasiliano, dovevano vincere loro, no? «Make noise», urlano gli speaker negli incontri di pallavolo. Parigi sarà come Rio, ritroverà il rumore, il pubblico, gli incontri, gli amori e la voglia di stare insieme, e questo è il più grande cambiamento sotto i cinque cerchi. Nel Villaggio tra le banlieues di Saint-Denis e Saint-Ouen, fra parole sconosciute fino a trenta o quaranta anni fa, “sostenibilità”, “biodiversità”, ci sarà la vita che tornerà a pulsare violenta. La felicità di esserci, l’importanza di partecipare, di aspettare il giorno, la gara, la notte prima e i minuti dopo. Un’esperienza comune per 14mila atleti, un medio paese della provincia italiana, che passerà, come indica la brochure di presentazione, «dalla vita monastica a Ibiza in 24 ore». Non è vincere l’unica cosa che conta. L’unica cosa che conta è viverla, un’Olimpiade.