Quanto è importante avere un mental coach nel nuoto

Ne abbiamo parlato con Nicolò Martinenghi e Noè Ponti, da oggi in gara alle Olimpiadi di Parigi 2024.

Alle Olimpiadi di Tokyo 2020, posticipate di un anno a causa del coronavirus, Caeleb Dressel, Adam Peaty e Kristóf Milák hanno conquistato in totale dieci medaglie. Dressel, statunitense, ha vinto i 50 e i 100 stile libero, i 100 farfalla e le staffette 4×100 stile libero e 4×100 mista; Peaty, britannico, si è imposto nei 100 rana e nella staffetta 4×100 mista mista (due uomini e due donne, una persona per ogni stile) ed è arrivato secondo nella 4×100 mista; Milák, ungherese, si è messo al collo l’oro nei 200 farfalla e l’argento nei 100. Erano tra i nuotatori più forti al mondo, destinati a dominare a lungo le rispettive specialità, ma negli anni successivi hanno dichiarato pubblicamente di aver vissuto problemi di salute mentale e non hanno partecipato ai Mondiali che si sono svolti l’estate scorsa a Fukuoka, in Giappone. Tutti e tre, comunque, si sono qualificati per le nuove Olimpiadi che cominciano oggi a Parigi.

Nelle gare che disputeranno in Francia, tra i loro avversari ci saranno anche Nicolò Martinenghi e Noè Ponti. Martinenghi ha 24 anni, è italiano e a Tokyo ha vinto la medaglia di bronzo nei 100 rana nella finale che ha incoronato Peaty campione olimpico per la seconda volta consecutiva dopo Rio de Janeiro 2016; Ponti ne ha 23, è svizzero (del Canton Ticino) e in Giappone è arrivato terzo nei 100 farfalla alle spalle di Dressel e Milák. Li abbiamo incontrati una mattina di metà maggio proprio a Parigi, in occasione di un media day organizzato dallo sponsor tecnico arena. Martinenghi e Ponti sono amici perché si conoscono fin dalle categorie giovanili, parlano l’italiano, condividono la passione per anelli, gioielli e orecchini e hanno un’altra cosa in comune: entrambi nella loro carriera si sono affidati a un mental coach o uno psicologo dello sport.

«Io ho iniziato a 12 anni con una mental coach», racconta Martinenghi. «Sai, la mente di un bambino è molto più malleabile, riesci a plasmarla meglio, ha molti meno pregiudizi e scetticismi, sei sempre tranquillo: uno ti dice una cosa e tu la fai. Ho sempre avuto grossi feedback positivi sotto questo aspetto. Poi, a 16 o 17 anni, il cammino con questa mental coach è arrivato al termine, semplicemente perché quello che avevo bisogno di sapere su me stesso l’avevo raggiunto. Nel 2018, però, mi sono fatto male: frattura da stress al pube. Frattura da stress vuol dire usura, banalmente. Lì sono cascato dal pero, venivo da un momento in cui sentivo di poter cavalcare le onde e sono finito in un down totale. Non avevo più niente di certo. All’epoca nuotare non mi interessava neanche così tanto, sono sincero, volevo godermi l’ultimo anno di scuola e la maturità come un ragazzo qualsiasi, ho fatto i miei errori, le mie cazzate. Quando andavo alle gare mi sentivo uno tra tanti, come se fossi lì per caso. Volevo che gli altri dicessero: ah, c’è anche lui. Ma non ci riuscivo. Così ho trovato un altro mental coach che mi ha seguito fino a poco dopo Tokyo, ho finito nel dicembre del 2021, e lui mi ha dato delle certezze, mi ha detto: tu vali quello che pensi di valere. Ovviamente ci vuole molta obiettività in quello che uno fa o pensa, però poi ci sono dei processi semplicissimi e banali che magari ti cambiano tutto. Per me il mental coach è una figura importante, è logico che non è essenziale, perché magari non tutti ne hanno bisogno, ma è importante».

Marco Pedoja, che allena Martinenghi dal 2011, cioè da quando il ranista aveva 12 anni, e quindi è diventato ormai una specie di secondo padre per lui, aggiunge: «Per me se lo avesse ancora non sarebbe una brutta cosa, glielo dico sempre, perché comunque una persona in più con cui parlare serve sempre. Io conosco Nicolò da quasi 15 anni e certe cose le capisco, le percepisco: c’erano delle giornate in cui lo vedevi, arrivava in piscina e voleva spaccare il mondo. Ho fatto una call con il mental coach e sono carichissimo, diceva, e poi effettivamente si allenava molto bene. Nicolò è così: basta poco per accenderlo, basta poco anche per spegnerlo, ma se lo accendi nel modo giusto dopo ce l’hai. Il mental coach era bravo a farlo, e Nicolò faceva una giornata d’allenamento super che poi comunque ci portavamo dietro per il futuro».

Anche Noè Ponti ha attraversato un periodo difficile nella sua carriera, e questo periodo è capitato proprio negli ultimi anni, dopo la medaglia di bronzo nei 100 farfalla a Tokyo e fino alla scorsa estate, quando non è riuscito a salire sul podio in nessuna gara ai Mondiali di Fukuoka. «Nel settembre del 2021, poche settimane dopo le Olimpiadi, sono partito per andare ad allenarmi e a studiare negli Stati Uniti d’America», spiega. «Lo avevo programmato da un anno, era già tutto organizzato, ma la medaglia di Tokyo mi ha cambiato completamente la vita, almeno in Ticino, e all’inizio penso di non essermi neanche reso conto bene di quello che avevo fatto, soprattutto per un Paese come la Svizzera. Sono partito per l’America e dopo tre o quattro settimane ho iniziato a chiedermi: sto facendo la cosa giusta? Non ne ero più sicuro, non ero neanche più contento, iniziavo a starmene da solo nella mia stanza. Così ne ho parlato con le persone che mi stanno vicino e abbiamo deciso che, prima che diventasse un problema più grande, era giusto tornare a casa. Perché alla fine lì ho tutto quello che mi serve».

Noè Ponti arriva alle Olimpiadi di Parigi con il secondo miglior tempo mondiale stagionale nei 100 farfalla: 50”16 (PHILIP FONG/AFP via Getty Images)

«L’anno scorso invece i Mondiali non sono andati bene per vari motivi», continua Ponti. «Il primo è che abbiamo scaricato troppo presto: ho avuto il picco di forma quando ero nel campo d’allenamento a Fuji, prima delle gare, perché lì stavo veramente una favola. Però devo anche dire che tra aprile e luglio dell’anno scorso mi sono spostato tantissimo, era sempre un andare via-tornare a casa per poco tempo-andare via di nuovo, sono stato via tantissimo da casa e avevo anche gli esami universitari di mezzo, quindi è stato abbastanza stressante. Non ho mai avuto il tempo di rilassarmi e sono arrivato ai Mondiali stanco mentalmente. Non vedevo l’ora di andare in vacanza, di staccare. E poi c’erano anche le pressioni da parte dei media, perché comunque non c’era Dressel, non c’era Milák, quindi sapevo di essere uno tra quelli che si giocavano qualcosa di importante, e questo sicuramente non mi ha aiutato. Pensavo di avere tutto sotto controllo, ma in realtà non lo avevo». Con lo psicologo dello sport, da cui è affiancato dal 2018, nell’ultimo anno Ponti ha lavorato molto «sulla gestione delle energie, soprattutto le energie mentali, perché penso che la cosa più importante sia arrivare lucido alle Olimpiadi. Devo trovare il modo di ricaricare le batterie mentalmente, e stare di più a casa, stare con le persone che mi vogliono bene, con la mia ragazza, sono tutte cose che in un modo o nell’altro mi fanno stare bene, mi rilassano».

Il tema della salute mentale è sempre più attuale nello sport contemporaneo, nel nuoto ma non solo. La potenza delle parole della ginnasta Simone Biles alle Olimpiadi di Tokyo ha infranto molti tabù intorno a questo argomento, e la settimana scorsa il nuotatore artistico italiano Giorgio Minisini, tre volte campione del mondo, ha annunciato il proprio ritiro a 28 anni dichiarando: «Io non sono stato bene in questi ultimi anni. Non è una novità. Ma ora non voglio più barattare il mio benessere per un’ossessione. Mi sono fatto tanto male per questo sport e adesso semplicemente non sono più disposto a farlo». La salute mentale è democratica, riguarda potenzialmente tutti, sportivi e chi fa il lavoro più banale del mondo, ma sembra fare più notizia quando a parlarne sono calciatori, campioni olimpici, star dell’Nba. «Un mio caro amico una volta mi ha detto che una medaglia d’oro è la cosa più fredda che si possa indossare: pensi che risolverà tutti i tuoi problemi, ma non è così», ha ripetuto spesso Adam Peaty in questi ultimi mesi.

«La medaglia d’oro nasconde più cose di quelle che fa vedere», dice Nicolò Martinenghi. «Guarda la medaglia d’oro di Greg (Gregorio Paltrinieri, ndr) a Rio 2016: lui l’ha raccontato più volte e l’ha scritto in un libro cosa ha passato dopo… È una medaglia che qualche volta ti sembra la medaglia che sogni da sempre, ma che magari quando la raggiungi non ti ha dato quello che ti aspettavi, non è la medaglia che vorresti. Io non sento ancora di aver raggiunto quel livello lì, fortunatamente tutti gli ori che ho vinto sono ori che mi hanno completato, ori indimenticabili. Però capisco che possano essere momenti molto delicati. Con l’argento non ti poni questi problemi, anzi, magari l’argento ti dà la voglia di arrivare ancora più in alto. L’oro invece… è l’oro. Ti dici: ok, ora che ho l’oro, devo continuare, devo fare, mi devo riconfermare. È bello, perché chi vince è il numero uno, ma sono anche molti problemi in più. Peaty ha sempre dovuto difendersi, lui è sempre stato inseguito da tutti noi. Anche io ho inseguito, e inseguire è più facile che scappare. Comunque sono contento che sia tornato, la sua presenza dà più valore e nobilita le Olimpiadi: una finale con Peaty è meglio di una finale senza Peaty».

«Quando sei così giovane e hai già vinto tutto quello che uno sportivo può vincere, Olimpiadi, Mondiali, Europei, record del mondo, hai tutto», conclude Noè Ponti. «Trovare le motivazioni per fare di più non è facile, perché comunque prima o poi inciampi. Tanti sportivi ci passano, i momenti bui capitano, l’importante è riuscire a superarli. Ma Dressel, Peaty e Milák che tornano è una cosa che potrà solamente fare bene al nuoto, e io sono contento di rivederli a Parigi. È bello gareggiare contro le persone più forti al mondo. È figo».