I portieri sono stati i veri protagonisti di questi Europei, almeno fino alle semifinali. In un torneo lento e pieno di partite che quasi nessuno ricorderà, i portieri hanno lasciato tracce indelebili, lampi di talento, momenti unici destinati a rimanere in qualche modo nella storia. Come quella parata di Mert Günok alla fine di Austria-Turchia, agli ottavi di finale. È la parata più bella della competizione, una di quelle che verrà citata in futuro come metro di paragone per i salvataggi più incredibili di sempre. Per l’Austria era l’ultima occasione per il pareggio, non c’era più tempo: una palla arrivata sulla testa di Baumgartner, a pochi passi dalla porta, Günok l’ha deviata fuori con un gesto più istintivo che razionale. A fine partita il ct austriaco Ralf Rangnick l’ha paragonata al salvataggio di Gordon Banks su Pelé ai Mondiali del 1970. Sì, esatto: la “parata del secolo”. E l’ha fatta un portiere a fine carriera, di 35 anni, dopo una vita trascorsa nella Süper Lig turca senza troppi guizzi. A volte basta poco, un istante, per rimanere nella storia.
È stato il torneo dei portieri anche oltre i singoli gesti, per prestazioni mostruose in diverse partite. Come tutte quelle che ha fatto Giorgi Mamardashvili: quattro gare in cui è sembrato semplicemente il più forte del mondo. Nei gironi ha fatto 21 parate, undici soltanto contro la Repubblica Ceca, togliendo dalla porta 3,6 xG. Oggi è difficile immaginare che possa rimanere al Valencia dopo un Europeo del genere. Ma un numero uno può essere protagonista anche in maniera più silenziosa, come Bart Verbruggen dei Paesi Bassi, a cui The Athletic ha appena dedicato un profilo in cui descrive il suo stile e la sua importanza nel gioco della Nazionale. È il racconto del portiere titolare più giovane della competizione, capace di tenere insieme la vecchia e la nuova scuola degli estremi difensori. Eppure veniva da una stagione al Brighton non particolarmente brillante, con 27 presenze tra tutte le competizioni e un’alternanza costante con Jason Steele. A dire il vero The Athletic ha modo di parlare praticamente di chiunque, così ieri ha ricostruito anche la storia e la carriera di Mike Maignan, in un articolo firmato da Charlotte Harpur e James Horncastle. Il portiere della Francia e del Milan è un altro volto di questi Europei, in una squadra che fa di tutto per far sembrare il calcio un gioco ruvido, involuto, irritante. E alla fine demoralizza l’avversario che riesce a costruire mezza occasione da gol mettendogli davanti un supereroe della Marvel che respinge qualsiasi cosa.
La Francia gareggia con l’Inghilterra per il premio di squadra che valorizza meno il talento a disposizione. Sono due Nazionali imbottite di giocatori eccezionali ma incapaci di attivarli, rendono le partite noiose fino al parossismo. È un gioco basato su una forma di realismo speculativo: l’idea che per arrivare in fondo bisogna ridurre al minimo gli eventi di una partita, devono accadere poche cose, poi il talento degli attaccanti risolverà i problemi. O decideranno tutto i rigori. E infatti Jordan Pickford è diventato un eroe per gli inglesi, come ha spiegato Barney Ronay sul Guardian. Ma Francia e Inghilterra non sono le uniche due Nazionali a comportarsi così: in Germania moltissime partite sono state di basso livello, poco stimolanti dal punto di vista tattico e poco spettacolari anche quando i valori in campo promettevano ben altro. Uno scenario ideale solo per i portieri, a cui possono bastare pochi istanti e pochi elementi – un tiro da fuori, un rigore, un uno contro uno – per esaltarsi.
In fondo, è quello che è accaduto anche a Donnarumma, protagonista di un’Italia non all’altezza delle aspettative. Il portiere del Paris Saint-Germain è stato forse l’unico sopra la sufficienza nella Nazionale Spalletti (va bene, c’è stato anche Calafiori), e ha dimostrato ancora una volta perché è il titolare nonostante tante discussioni sulla concorrenza di Vicario, Provedel, Di Gregorio, Meret. Certo, lui era stato protagonista assoluto anche nella scorsa edizione del torneo, sia grazie ai rigori parati in finale sia con una presenza solidissima nei momenti di maggior difficoltà dell’Italia che poi avrebbe vinto.
Pochi giorni fa l’ex difensore inglese Nedum Onuoha sul sito della BBC ha scritto che i tornei brevi come Europei e Mondiali andrebbero paragonati alle settimane finali delle stagioni dei club, in cui non conta nulla se non il risultato al novantesimo: «Prendiamo ad esempio la finale di Champions League, molto spesso presenta almeno una, se non due, delle migliori squadre d’Europa. Molto raramente produce uno spettacolo all’altezza del talento in campo. La posta in gioco è così alta che chi va in campo ha paura di commettere errori. Anche a Euro 2024 c’è un elemento di riluttanza da parte di giocatori e allenatori a Euro 2024: non vogliono correre rischi, perché sanno che andare in svantaggio potrebbe essere fatale».
Le Nazionali, insomma, non hanno lo stesso tempo a disposizione per la preparazione, non sempre sono costruite mettendo insieme giocatori complementari in una visione olistica, più spesso sommano talenti per calcolo algebrico. Anche perché il bacino di talenti a disposizione di un ct è limitato. L’esempio più evidente è quello della Serbia, che ha in Dusan Vlahovic e Aleksandar Mitrovic due dei suoi migliori giocatori. Solo che due centravanti così non li metterebbe insieme nessun direttore sportivo dotato di senno. E quindi è il sistema di gioco a piegarsi al talento tecnico, sperando che in qualche modo il campo porti risultati.
Il calcio nel mondo delle Nazionali è troppo lontano dalla professionalizzazione e dall’ossessione per la razionalità dei club. L’approccio scientifico diffuso negli ultimi anni ha portato una ricerca costante dell’efficienza, delle condizioni migliori per calciare, per dribblare, per avere il miglior posizionamento del corpo al momento del controllo. Nasce da qui la riduzione dei tiri dalla distanza, o comunque una loro razionalizzazione; la diminuzione dei cross; la ricerca del palleggio a inizio azione e così via. Ed è per questo che tutti i gol da fuori area che abbiamo visto all’inizio di questi Europei sono sembrati assurdi, residui di un gioco preistorico.
In questo torneo tedesco forse può aver pesato anche il format. Fin dall’inizio molte squadre hanno provato a fare calcoli e incastri per cercare il passaggio del turno, provando a speculare nella speranza che anche solo 3 punti sarebbero potuti bastare – anche se poi l’Ucraina è andata fuori con 4, da quarta nel girone. Era già successo agli Europei del 2016, espressione massima del calcio difensivo, anzi speculativo, dei tornei internazionali. La maggior parte delle Nazionali aveva un approccio sparagnino, sperava di sfangarla in qualche modo dopo 90 o 120 minuti con due linee da quattro incrostate ai venti metri. Simbolo di quel torneo è il Portogallo campione: un girone passato da terza con tre pareggi, una sola vittoria nei 90 minuti regolamentari nelle gare a eliminazione diretta – la semifinale, 2-0 con il Galles – e il trionfo in finale ai tempi supplementari.
Quel Portogallo era pieno di talento, eppure giocava un calcio poco ambizioso. Oggi non sembra cambiato granché, nonostante un ct diverso. In questi giorni si è parlato quasi esclusivamente dell’ego di Cristiano Ronaldo, del fatto che abbia tenuto in ostaggio Roberto Martínez e tutta la squadra schierandosi in campo da solo. Ma non è certo l’unico motivo per cui una squadra così forte ha deluso le aspettative. Una Nazionale incapace di segnare in tre partite su cinque, bloccata sullo 0-0 con la Slovenia in 120 minuti agli ottavi, poi inevitabilmente salvata dal suo portiere. Un altro numero uno decisivo: Diogo Costa ha parato tre rigori consecutivi, diventando il primo della storia a parare tutti i rigori avversari in una gara a eliminazione diretta di Europei o Mondiali.
È arrivato il momento di una bella compilation di parate (c’è solo la fase a gruppi, ma c’è tanta ciccia)
Il protagonismo dei portieri è uno spunto di riflessione anche sulla condizione dei giocatori di movimento, che spesso arrivano stremati all’estate, spompati da stagioni lunghissime, calendari compressi e magari un fisiologico appagamento (o delusione) per titoli vinti o sfumati in primavera – lo stiamo vedendo anche in Copa América. Non che i portieri non si stanchino e non siano colpiti dalla bulimia di partite. Ma è chiaro che, a livello puramente atletico, c’è una differenza netta con tutti gli altri.
Le conoscenze scientifiche attualmente a nostra disposizione parlano di un ideale di 35-36 partite in una stagione, fino a un limite massimo di una cinquantina di partite per le squadre migliori, quelle che arrivano in fondo a tutte le competizioni. La realtà ci dice che alcuni giocatori sono costretti a giocarne anche 70 in un anno, magari percorrendo migliaia di chilometri intorno al mondo. La conseguenza è che a uscirne danneggiati sono loro, loro prima di tutti, la materia prima che poi definisce la qualità del gioco.
È anche per questo che, durante Europei e Mondiali, vediamo partite confuse, illeggibili, meno prevedibili. Ma il caos può essere anche piacevole per uno spettatore. Non a caso una delle partite più belle degli Europei è stata Turchia-Georgia, prima giornata dei gironi. È stata una partita pazza, sfuggente, piena di errori e imperfetta, eppure molto divertente. Certo, l’abbiamo guardata con occhi diversi rispetto al quarto di finale Spagna-Germania – l’unica gara di questi Europei paragonabile allo spettacolo qualitativo delle grandi sfide di Champions League. «Vogliamo la storia, l’orgoglio e gli inni, ma ci incolliamo allo schermo per l’incertezza che caratterizza la maggior parte delle partite. L’imprevedibilità del calcio per Nazionali è un rinfrescante cambio di ritmo rispetto alla monotonia del calcio di club», aveva scritto Gabriele Marcotti nel suo commento di fine gironi su Espn. Perché, in fondo, la bellezza si può declinare in molte forme. E se gli Europei non possono riprodurre lo stesso spettacolo della Champions League, possiamo trovare il modo di apprezzarli lo stesso. Magari guardando a chi gioca in porta.