Citius, Altius, Tamberi

Intervista al portabandiera dell'Italia alle Olimpiadi di Parigi 2024: la maniacalità, l'ambizione, gli stimoli di un campione che ha già vinto tutto, ma non riesce ad accontentarsi.

La primissima scena di Radiofreccia, un film che forse non è un capolavoro ma che di certo ha significato qualcosa per due o tre generazioni di italiani, è un breve monologo di Bonanza, uno dei personaggi che fa da contorno alle vicende del protagonista, Ivan detto Freccia, e del suo gruppo di amici. Messo al centro di un’inquadratura strettissima, Bonanza dice che «la vita non è perfetta. Le vite nei film sono perfette, belle o brutte ma perfette. Nelle vite dei film non ci sono tempi morti, mai». 

Queste tre frasi sono vere per la stragrande maggioranza degli esseri umani. Poi ci sono gli altri, le persone che abitano fuori da questa maggioranza: le persone straordinarie. E Gianmarco Tamberi, si può dire senza timori di smentita, è una persona straordinaria. Perché è uno degli sportivi più rappresentativi nella storia del nostro Paese, perché è campione olimpico e del mondo e d’Europa (e di molte altre cose) nel salto in alto. Ma non solo: Gianmarco Tamberi è una persona straordinaria perché la sua carriera e la sua vita hanno una trama vorticosa e appassionante, tragica ed esaltante, e lui le attraversa come se volesse assecondare il flusso, come se fosse perennemente seduto su un treno delle montagne russe sparato ad altissima velocità. E così anche una semplice intervista diventa un’occasione buona per fare battute, per prendere e per prendersi in giro, per parlare del suo sport e dei trionfi meravigliosi che ha ottenuto e dei dolori fortissimi che ha dovuto fronteggiare, di pallacanestro, di ciò che fa tutti i giorni, delle cose che non ama fare, dei film che gli piacciono – il suo preferito in assoluto è The Butterfly Effect con Ashton Kutcher – e di tutto quello che gli passa per la testa. Senza filtri, o quasi. Senza tempi morti, mai.

La smania di vita di Tamberi si manifesta anche prima, durante e dopo le gare. Per lui lo stadio che ospita un grande evento – anche una finale olimpica, mondiale o europea – è come se fosse il palazzetto di Ancona in cui va ad allenarsi tutti i giorni, e viceversa. Per dire: poche settimane fa a Roma, subito dopo aver conquistato il suo terzo oro europeo, ha simulato un infortunio buttandosi a terra, ha tolto le scarpe, ha mostrato delle molle che aveva nascosto lì, tra i calzettoni e la tomaia, e poi ha saltato 2.37 davanti al pubblico dell’Olimpico, dove peraltro non aveva mai vinto un grande titolo; ai Mondiali di Budapest del 2023, invece, si è messo a suonare la batteria prima dell’inizio della gara e poi ha conquistato un oro che gli ha permesso di eguagliare uno storico primato nazionale: prima di lui, infatti, un solo italiano – il mezzofondista Alberto Cova – era riuscito a completare il grande slam dell’atletica leggera, ovvero a vincere il titolo assoluto ai Giochi Olimpici, ai Mondiali e agli Europei. 

La teatralità e la spontaneità guascona di Tamberi piacciono a tanti. Ma non a tutti. Per i critici, il personaggio-Tamberi finisce addirittura per oscurare il meraviglioso atleta che è, che ha dimostrato di essere nel corso della sua carriera. Stuzzicato su questo punto, Gianmarco risponde in maniera chiara, lineare. Per lui la sua esuberanza è una caratteristica distintiva, una dote da coltivare: «Essere me stesso», dice a Undici, «è una cosa su cui ho puntato molto. Spesso gli sportivi fanno fatica a essere spontanei, naturali, soprattutto negli appuntamenti più importanti della loro carriera. La loro paura è quella di essere giudicati, e i social hanno accentuato questa preoccupazione. Io invece credo che sia impossibile essere delle macchine, a maggior ragione quando vivi un momento in cui ti giochi anni di lavoro, di sacrifici. Le emozioni sono dentro di noi, cercare di limitarle secondo me è un errore. Personalmente ho sempre cercato di tirar fuori tutto ciò che ho dentro, di far vedere chi e cosa si cela dietro l’atleta. Col tempo, questo modo di fare mi ha avvicinato molto al pubblico: chi guarda le mie gare può vedere un ragazzo in difficoltà, anche in lacrime in certi momenti, ma anche un campione super-carico. Ecco, in questo modo credo che le persone possano immedesimarsi in me». 

Alla luce di queste parole, viene da pensare che Gianmarco Tamberi sia uno che se ne frega, uno che non dà alcun peso al giudizio degli altri. In realtà è così solo in parte: Tamberi, infatti, è perfettamente consapevole del tempo e del mondo in cui vive, della sua condizione di personaggio mediatico da cui è giusto aspettarsi messaggi positivi. Il punto è che Tamberi di messaggi positivi ne invia tantissimi, e sono anche dentro i piccoli show che allestisce per il suo pubblico. A dirlo non è Gianmarco: a dirlo sono gli altri, a dirlo sono i feedback positivi che arrivano dai suoi colleghi e dai suoi avversari e dall’intero multiverso dello sport. Tutti abbiamo ancora negli occhi l’abbraccio fraterno tra Gianmarco e Mutaz Barshim alle Olimpiadi di Tokyo, quando entrambi conquistarono la medaglia d’oro, poi passò un quarto d’ora e Tamberi era appeso al collo di Marcell Jacobs per celebrare i loro trionfi nel salto in alto e nei 100 metri, la giornata più bella nella storia dell’atletica italiana; poche settimane fa, quando è uscita la notizia che Tamberi sarebbe stato uno dei due portabandiera dell’Italia alle Olimpiadi di Parigi, Gregorio Paltrinieri – probabilmente l’unico atleta azzurro che avrebbe potuto essere scelto al posto di Gianmarco – ha scritto su Instagram che «un mio grande amico e un atleta che stimo tantissimo è stato scelto per fare il portabandiera. E io non posso che essere strafelice per lui».

Ecco, Tamberi crede che tutta questa amicizia e tutto questo affetto siano legati al suo modo di essere, al modo in cui si comporta: «La mia spontaneità ha avuto un peso e un impatto importanti sulla mia carriera. Però non si può essere ciechi o stupidi: è chiaro che a tutte le persone faccia piacere essere apprezzati dagli altri. Quindi bisogna essere sé stessi, ma bisogna anche essere un esempio, soprattutto per i giovani. So di avere delle responsabilità, so che queste responsabilità vanno onorate. Quando leggo o ascolto le parole di apprezzamento da parte dei miei colleghi/avversari più giovani, o dei miei compagni di Nazionale, mi fa molto piacere. Avere dei feedback positivi è sempre bello. In questo senso, fare il portabandiera a Parigi è un’onorificenza che non ha eguali. Sinceramente non avrei mai pensato di raggiungere questo traguardo». 

Molto spesso la narrazione giornalistica dello sport si muove per compartimenti stagni, se non addirittura binari. Tra i cliché più stucchevoli c’è quello per cui un atleta esuberante debba essere anche leggero, frivolo, svagato, e non ci sono alternative. Da questo punto di vista, la vita e la carriera di Tamberi raccontano una storia totalmente diversa. Anche stavolta non è lui a dirlo: quando parli di Gianmarco con sua moglie Chiara, con un membro del suo staff, con chiunque lo conosca davvero, la prima parola che usano per descriverlo, tutti, è maniaco. «Gianmarco è un maniaco del suo sport», aggiungono subito dopo. Ma come e in cosa si esprime questa maniacalità? «Il mio pensiero è rivolto costantemente al salto in alto», dice Tamberi. «Non dico 24 ore al giorno perché a un certo punto vado a dormire, ma per il resto il mio cervello torna sempre alla preparazione tecnica, alla preparazione atletica, ai video dei salti che guardo prima di andare a letto e che poi ripasso nella mia mente prima di addormentarmi. La mia vita è un continuo rimanere dentro la bolla, in ogni scelta della mia giornata penso al salto in alto, a cosa posso fare per rendere meglio in gara. Anche le gare degli altri sono uno stimolo, per me: appena so che un avversario gareggia, faccio il possibile per guardarlo in tv. Mi serve sapere in che condizioni si trova, che misura riesce a raggiungere, cerco sempre nuove ispirazioni guardando il mio sport. Poi è chiaro che il tempo cambia un po’ le prospettive: prima dovevo costruire il mio modo di saltare, quindi guardavo chi era più forte di me. In questo momento sto cercando di perfezionare il mio salto, più che prendere spunto da altri».

Nel racconto della notte romana in cui Tamberi è salito sul tetto d’Europa per la terza volta, il sito European Athletic ha scritto che «i salti di Gimbo sono una pura dimostrazione di classe». In effetti, e basta rivedere la gara dell’Olimpico per rendersene conto, Gianmarco è un altista dallo stile leggiadro e al tempo stesso potente, che riesce a compensare un fisico tutt’altro che esplosivo con una tecnica raffinatissima, in ogni singolo aspetto dei suoi salti. Questa cura del dettaglio, anche quello più piccolo, è una delle prospettive migliori per comprendere e spiegare i suoi successi: «Se dovessi ritrovarmi in un training camp con i migliori saltatori al mondo», dice Tamberi, «probabilmente arriverei sempre ultimo in tutti i test atletici. A livello di forza, di velocità e di reattività sento di essere molto indietro rispetto ai miei avversari. Allo stesso tempo, però, non vivo questo gap come un difetto. Anzi, per me è uno stimolo per spingere tanto in allenamento, per fare il più possibile e accorciare le distanze».

Secondo Gianmarco, però, la chiave dei suoi trionfi si trova dentro la sua testa, cioè va rintracciata nella sua forza psicologica, in quella che lui stesso definisce come una vera e propria ossessione: la volontà di primeggiare. «Io amo la competizione», dice Tamberi. «Amo mettermi alla prova, amo la gara, amo superare i miei limiti. Da quando ho iniziato a fare salto in alto, mi sono reso conto che il momento in cui riesco ad avere dei risultati importanti è quando mi pongo una sfida. Sono un agonista nato, da piccolo mi arrabbiavo anche se perdevo a pari o dispari. E il mio pregio più grande è proprio questo: voglio far bene e quindi rendo al meglio quando le gare diventano importanti, quando arrivano i momenti decisivi. È un discorso che vale per tutti gli sport ma ancora di più nel salto in alto, visto che parliamo di uno sport in cui, fondamentalmente, c’è una sola grande gara ogni anno, ed è lì che si decide tutto. Tu puoi saltare 2.40 tutto l’anno, ma se non fai la misura giusta nella gara giusta la tua stagione è andata male. Fare bene nei meeting non porta a vincere nulla di concreto, se poi non riesci a performare ai Mondiali, alle Olimpiadi. Ecco, da questo punto di vista mi sento davvero forte».

Su una delle asticelle che usa quando si allena ad Ancona, la città dove vive insieme a sua moglie, Gianmarco Tamberi ha appiccicato una striscia di scotch di carta. Su questa striscia c’è una scritta a penna visibile anche da lontano: Paris 2024. Non che ci fossero dubbi sul fatto che Gianmarco tenga tantissimo alle prossime Olimpiadi, figuriamoci, ma in una situazione del genere è impossibile non tornare al discorso sulla maniacalità, sull’ossessione per la competizione e per la vittoria: in fondo Tamberi ha già vinto tutto quello che poteva vincere, non deve dimostrare più nulla.

Il problema di Gianmarco, però, è che lui stesso la pensa in maniera diversa. E non ha problemi ad ammetterlo, a raccontarlo: «Io non guardo mai indietro, guardo sempre al prossimo obiettivo da raggiungere, al prossimo record da aggiornare, alla prossima gara da vincere. Probabilmente questo è il modo peggiore per godersi una carriera nello sport professionistico, ma è anche l’approccio migliore se vuoi ottenere il massimo. E poi è una questione di stimoli. Se guardo verso Parigi, io ne ho tantissimi, e sono tutti enormi: se vincessi, diventerei il primo altista di tutti i tempi a conquistare due ori consecutivi ai Giochi Olimpici; e poi eventualmente potrei festeggiare insieme alle persone che mi vogliono bene, le persone che non c’erano a Tokyo per via delle restrizioni sanitarie, le persone che erano venute a Rio per sostenermi, solo che in quel caso poi fui io a mancare. Tanti amici avevano comprato i biglietti, si erano fatti il viaggio fino in Brasile, dovevano tifare per me e invece io mi sono ritrovato seduto accanto a loro a seguire le gare. Ecco, ora quelle stesse persone saranno in Francia insieme ad altre migliaia di tifosi. Come faccio a non avere stimoli?». 

Essere un fuoriclasse e avere tanti stimoli vuol dire anche dover convivere con il peso delle aspettative, della pressione. Da questo punto di vista, Tamberi ha una visione lucida e anche piuttosto personale della sua condizione: in un’intervista rilasciata diversi anni fa al Corriere della Sera, ha spiegato che «io il salto in alto lo faccio perché sono bravo, non perché lo amo»; nei momenti di pausa dello shooting che vedete in queste pagine, Gianmarco ha spiegato quanto sia difficile, per lui, rinunciare a mangiare quello che vuole nei periodi di massimo sforzo, quelli in cui deve spingere di più in allenamento.

Ecco, appunto: le rinunce e le decisioni difficili sono una parte importantissima del suo lavoro. Soprattutto in una stagione che culminerà con i Giochi Olimpici: «L’atletica leggera», dice Tamberi, «è diversa da altri sport. L’allenamento che facciamo non può essere un momento divertente, chi la pratica sa benissimo che non arriverà mai il momento di giocare, anche solo per esercitarsi, come invece succede ai calciatori, ai pallavolisti, ai tennisti. Non inviterei mai un mio amico a fare una ripetizione di balzi, perché si annoierebbe. Per chi fa salto in alto, poi, entrare in condizione significa spingere il corpo al limite. A volte anche oltre. E allora fare delle rinunce e viverle bene è fondamentale. Io per esempio quest’anno ho saltato gli eventi indoor in modo da azzerare i rischi in vista delle Olimpiadi. Insomma, ho dovuto rinunciare a uno dei pochi momenti divertenti della nostra disciplina. Spero almeno che alla fine ne valga la pena. Ma potrò dirlo solo dopo Parigi. Solo dopo quella che probabilmente sarà l’ultima Olimpiade della mia carriera». Solo dopo un ultimo giro sulle montagne russe, ovviamente sparato a tutta velocità. 

Foto di Franap
Moda di Anna Carraro, Fabiana Guigli