La terapia del dolore di Novak Djokovic

Da qualche anno a questa parte, Nole lotta anche contro i guai fisici. Ora i suoi match sono anche più divertenti?

Bisogna scomodare le tre categorie di Alberto Arbasino per commentare l’ennesima rimonta senza senso di Novak Djokovic su un campo da tennis: il fuoriclasse serbo è stato bella promessa, è stato a lungo solito stronzo, soprattutto quando privava Roger Federer del finale perfetto a Wimbledon 2019, adesso è diventato venerato maestro, un maestro che a 37 anni tira le tre del mattino per battere un giocatore che ha 15 anni in meno di lui e due giorni dopo, con il ginocchio malconcio, vince la partita più lunga della sua carriera al Roland Garros – una partita durata quattro ore e 39 minuti, giusto per far capire di cosa stiamo parlando. Francisco Cerúndolo era in vantaggio due set a uno 4-2 e servizio, poi ha avuto una palla break sul 5-5 nel quarto set, eppure Novak Djokovic won this match. Se Padre Tempo è ancora imbattuto, come si dice nello sport americano per indicare che no, nessun atleta è più grande dello sport che pratica, che prima o poi l’età il conto lo presenta a tutti, la sfida contro Djokovic è perlomeno due pari. Come andrà a finire il quinto set, lo scopriremo nei prossimi mesi.

Se Roger Federer era un’esperienza religiosa, guardare quest’ultimo Novak Djokovic è un’esperienza divertente: è il Real Madrid nelle partite a eliminazione diretta della Champions League, è la schadenfreude nei confronti dei suoi avversari. Vedi che Musetti ha finalmente l’occasione per eliminarlo dal Roland Garros, eppure sai che qualcosa sta per succedere; attendi che Cerúndolo dia il colpo di grazia al vecchio campione claudicante, ma finché l’ultima palla non rimbalza due volte mica si può spegnere la tv. «Non so come ho fatto a vincere», ha detto Djokovic subito dopo la partita: mistero della fede. Il giocatore noioso che vinceva sempre, il solito stronzo del tennis mondiale, non ha cambiato la sostanza ma ha mutato la forma: vince ancora, ma lo fa in modo diverso, forse perché sa che ogni volta potrebbe essere l’ultima e nessuno vuole perdersi quel momento storico. Non per godere della sua fine, ma per riconoscergli ciò che Djokovic rincorre da sempre e quasi mai ha raggiunto, forse una volta sola, nella finale degli US Open 2021: l’affetto del pubblico, le urla «Novak! Novak!» che immaginava nella sua testa mentre il centrale di Wimbledon nel 2019 gridava «Roger! Roger!».

For the ages

Una cosa simile, almeno da un po’ di tempo a questa parte, succede anche a Rafa Nadal. Prima dell’avvento di Djokovic era il villain che aveva osato invadere il giardino dell’Eden abitato da Roger Federer, adesso il suo lungo tour d’addio accumula applausi e lacrime in tutte le città, da Madrid a Roma, da Barcellona a Parigi. Qualche anno fa Simone Barnes ha scritto sul Times: «Il sentore della mortalità sportiva ha fatto qualcosa a Nadal: Rafa ha imparato quanto sia fragile e breve la carriera sportiva. C’è un inno che cantavamo a scuola che ci incoraggiava a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. Nadal gioca ogni punto come se fosse l’ultimo». Non è più una questione di vittorie, it’s not about victory, direbbero sempre in America, è l’amore per il gioco a farlo andare avanti. «Magari fra due mesi dirò basta, ma adesso non è ancora finita. Ho degli obiettivi chiari nella mia mente, come tornare su questo campo per le Olimpiadi. Può essere un’altra possibilità e spero di prepararmi al meglio», ha detto dopo la sconfitta contro Alexander Zverev al Roland Garros. «Non potevo immaginare quando ero un bambino di arrivare a quasi 38 anni con questi successi e col vostro affetto».

Guardando Djokovic-Cerúndolo ieri ho ripensato a una barzelletta che Silvio Berlusconi raccontò nel 1995 a Mara Venier durante una puntata di Domenica in. Inizia così: «C’è D’Alema che incontra Bertinotti, Bertinotti lo guarda e gli dice: “Ma lo sai Massimo che hai una brutta faccia? Cosa ti è successo? Sei proprio triste”». E D’Alema risponde: «È morto Berlusconi». Solo che per oltre due minuti non si arriva mai al motivo per cui è morto veramente, Berlusconi: la sede di Forza Italia è andata a fuoco, ma lui era all’ultimo piano; si è buttato dal balcone, ma sotto c’era il telone dei pompieri; è rimbalzato sul telone ed è finito sui cavi dell’alta tensione, ma ha fatto leva pure su quelli; e così via per costruire il climax ideale per il finale. In cui, serafico, il Berlusconi narratore sentenzia: «Abbiamo dovuto abbatterlo».