La vittoria dell’Atalanta in Europa League ha già cambiato la storia del calcio italiano

La società bergamasca e la squadra di Gasperini non hanno fatto un miracolo: hanno semplicemente raccolto i frutti di un enorme, bellissimo lavoro.

Fino a una manciata d’anni fa, una notte come quella di Dublino non sarebbe esistita neanche nei sogni più inconfessabili e irrazionali dei tifosi dell’Atalanta. E invece l’abbiamo fatto davvero: la squadra di Gasperini ha vinto l’Europa League, è sul tetto d’Europa, con l’entusiasmo di chi ci sale per la prima volta nella sua storia e con l’orgoglio di averlo fatto brillantemente, alla propria maniera. Il tondo 3-0 rifilato alla squadra-rivelazione del 2024, il Bayer Leverkusen, è la fotografia di una finale sorprendentemente a senso unico, in cui i tedeschi hanno sperimentato sulla propria pelle – anzi: sui propri denti, spuntati – cosa intendesse Guardiola quando diceva che «giocare contro l’Atalanta è come andare dal dentista». Un dentista che ieri si è mostrato particolarmente spietato, visto che è sceso in campo con un assetto decisamente offensivo (Koopmeiners arretrato al fianco di Ederson e a supporto del tridente Lookman-De Ketelaere-Scamacca) e creando dolori a Xabi Alonso con il tradizionale marchio di fabbrica di Gasperini, fatto di pressing alto, riaggressione feroce, uno-contro-uno a tutto campo e a ritmi pazzeschi. Il tutto impreziosito da un Ademola Lookman letteralmente incontenibile, autore di una tripletta che, si può dire, vale una carriera.

La vittoria di Dublino, contro un Leverkusen che non aveva mai perso in stagione (51 partite) e che in Bundesliga ha staccato di quasi venti punti il Bayern Monaco, rappresenta lo zenit e del lungo viaggio che ha portato fin qui, da molto lontano, la squadra di Gian Piero Gasperini. Un cammino che in Italia abbiamo avuto il privilegio di osservare da vicino, uno step di crescita dopo l’altro, fino quasi a non sorprenderci più. Fino ad aspettarci dei risultati, delle vittorie, e addirittura pretenderle, perdendo il senso della misura. Fino ad appiccicare l’etichetta di perdente a un allenatore reo di aver raggiunto una serie di finali, anzi di aver plasmato dal nulla un sistema che potesse anche soltanto sognare una finale, ma di non essere mai riuscito a vincerne una.

«Si parla sempre di coppe, di trofei, ma quando si riesce a fare qualcosa che nessuno ha mai fatto nella storia, magari non è una coppa, magari non è un trofeo, ma rimane comunque un risultato straordinario». Così Gasperini si congedava da Anfield lo scorso 11 aprile, dopo un altro rumoroso 3-0 europeo, servito a domicilio a un Liverpool imbattuto in casa da più di un anno – ancora dovevamo scoprire che questa Atalanta fosse una squadra in missione e favorito assoluto per la vittoria del torneo. Un risultato che sarebbe straordinario per chiunque, figurarsi per un club di una realtà delle dimensioni di Bergamo, con una fanbase di 330mila tifosi circa (dati StageUp e Ipsos), per intenderci dieci-quindici volte più piccola rispetto ai “big market” del nostro campionato; un club che è entrato nel nuovo millennio galleggiando tra Serie A e B, che fino a otto anni fa era stabilmente nella parte destra della classifica, e che quella sera aveva rovinato l’ultima campagna europea di Klopp a Liverpool. Un risultato che sarebbe bastato per mettere da parte la serie di finali perse, anche dopo la delusione della sconfitta in Coppa Italia, contro la Juventus; e sarebbe dovuto bastare nel caso in cui le cose fossero andate diversamente nella gara di Dublino.

Alla fine, Gasp ha vinto la finale più importante, una delle più difficili che ha affrontato. E lo ha fatto in grande stile. E anche se «non sono meglio di ieri solo perché ho vinto», come ha ribadito dopo la premiazione, da oggi c’è un prestigioso titolo europeo, portato a latitudini calcisticamente impensabili, a certificare la qualità del lavoro svolto. In modo indelebile. All’estero parlano di miracolo sportivo, ed è un riconoscimento più che meritato dai suoi artefici: Gasperini, i fratelli Percassi (presidente e amministratore delegato dal 2010, confermati anche dopo l’arrivo in società della cordata guidata da Stephen Pagliuca), Maurizio Costanzi (responsabile delle giovanili per tanti anni, e padre calcistico di altrettanti talenti) e tutte le figure che hanno contribuito, in campo e fuori, alla costruzione di un modello apprezzato in tutto il continente, fino a diventare un punto di riferimento.

Il sistema-Atalanta rappresenta infatti un’eccellenza a livello di programmazione e investimenti. Nell’era-Percassi i livelli di spesa sono accresciuti in ogni settore, gradualmente, di pari passo con l’affermazione e la stabilizzazione della squadra tra le grandi della Serie A, fino all’attuale status di club affermato sulla scena internazionale. L’approccio è sempre stato molto prudente, ma altrettanto ambizioso: non si è mai fatto il passo più lungo della gamba, non si è mai chiuso un bilancio con segno negativo dal 2016, eppure non ci si è mai accontentati. La società ha alzato continuamente l’asticella, ha investito oltre mezzo miliardo di euro in sette anni, grazie soprattutto alle entrate garantite dall’accesso alle competizioni UEFA e dal player trading. Una plusvalenza dopo l’altra, raccogliendo i frutti del lavoro di scouting e sviluppo interno del valore, dalle giovanili alla prima squadra, in una ben documentata tradizione di maxi-affari – Hojlund il più recente, Koopmeiners sarà il prossimo?

«Non è facile ma è replicabile come modello», ha detto Gasperini in una recente conferenza stampa, in un discorso che potrebbe essere il manifesto della sua gestione. «Abbiamo dato fiducia e speranza alle squadre non di primissima fascia e che non hanno introiti grandi introiti. Con le idee e con la capacità che ha avuto la società di fare plusvalenze incredibili, per poi reinvestire su altri giocatori facendo squadre altrettanto forti, siamo riusciti a migliorare sempre. Questo è stato il segreto di questa Atalanta in questi anni. Questo è l’unico modo, per società con i nostri numeri, di poter essere competitivi. Ogni anno ti devi reinventare e trovare le risorse. Chiaramente è importante andare in Champions, questo è stato indiscutibilmente un vantaggio negli anni scorsi, insieme alla capacità di vendere. Puoi sbagliare molto poco, perché se non rinforzi la squadra e non fai i giusti investimenti è difficile recuperare. Il succo dell’Atalanta è questo: non abbiamo risorse a prescindere, te le devi creare». Questa riflessione è emersa di nuovo, con la giusta punta d’orgoglio, nella conferenza stampa dopo la finale di Dublino. E da una prospettiva tutta nuova: «Vincere come ha vinto l’Atalanta, senza debiti, penso sia un grande modo di trionfare».

È per tutti questi motivi che oggi l’Atalanta ha uno stadio di proprietà, un centro allenamenti all’avanguardia e una seconda squadra in Lega Pro; che può permettersi acquisti da 30 milioni come Scamacca, Tourè e De Ketelaere, facendo concorrenza alle big della Serie A sul mercato; che può affrontare a viso aperto la migliori squadre d’Europa, dimostrando di essere una realtà che ormai appartiene con consapevolezza a questo livello. Con il grande merito di una dirigenza che ha sempre creduto nel progetto tecnico, anche nei momenti di bassa, come l’inizio della stagione 2016/17, o l’autunno 2018. La fiducia nei confronti di Gasperini non è mai venuta meno, e intorno al tecnico ha preso forma una struttura sempre più solida, con la continuità e la coerenza nelle scelte a indicare la via, anche in sede di calciomercato; niente rivoluzioni (distribuendo le cessioni di maggiore impatto), spazio ai giovani (ad Anfield erano titolari sei giocatori Under-25, per esempio) e ai prodotti del vivaio (Scalvini, Ruggeri, Carnesecchi).

Le idee sono diventate così una visione. E la filosofia si è trasformata una cultura. Che, unita all’esperienza acquisita di anno in anno, è diventata cultura vincente. Così come si è dimostrato vincente il sistema di gioco di Gasperini, coraggioso e innovativo, che ha avuto un’enorme influenza prima a livello italiano (i suoi discepoli ormai non si contano più) e poi internazionale. «Fa effetto anche a me vedere squadre che ci indicano come esempio da copiare», ha ammesso Gasperini in conferenza stampa, parlando poi del «Chelsea di Tuchel, che ha giocato a 3 dopo averci sfidato con il PSG». E poi «il Real a tre contro di noi», e «tante squadre in Europa». È davvero un’impresa sportiva con pochissimi precedenti, e per certificarlo definitivamente l’Atalanta è tornata dall’Irlanda questa notte, accolta da una città in festa, con la prima Europa League in assoluto per un club italiano; ci erano andate vicino la Roma dodici mesi fa e l’Inter nel 2020, ma l’ultimo successo nella seconda competizione europea risaliva al 1999, quando a vincere la Coppa UEFA era il Parma di Malesani.

Tutto è iniziato nell’agosto 2016 con un 3-0 alla Cremonese di Coppa Italia che pochi ricorderanno. Ieri, il progetto è culminato su un palcoscenico ben più luminoso, ma con lo stesso risultato, diventato peraltro familiare per la Dea nelle partite decisive di questa Europa League. Nei novanta minuti più importanti della storia dell’Atalanta, il protagonista è stato Ademola Lookman, scontato man of the match dopo una serata storica a livello individuale, quanto lo è stata per la sua squadra. La sua tripletta è una rarità in una finale europea – solo Puskás (due volte), Di Stefano, Heynckes e Pierino Prati ci erano riusciti prima di lui – ed è un exploit che racconta molto di questa Atalanta. Per la dirompente bellezza, innanzitutto: se il gol dell’1-0 è frutto di un’azione corale e di una distrazione difensiva, la seconda e la terza rete sono un concentrato delle sue migliori qualità; messe insieme nel migliore dei modi, nel momento giusto e al posto giusto. 

Immagini destinate a restare nella storia

Anche il background del nigeriano, poi, racconta qualcosa di questa Atalanta. Lookman è arrivato a Bergamo nel 2022, per meno di dieci milioni di euro, alla ricerca di sé stesso. Aveva segnato 33 reti in sette stagioni, non aveva mai espresso a pieno il suo potenziale, né in Bundesliga né in Premier League, ma nel 3-4-2-1 (o 3-4-1-2) di Gasperini si è ritrovato. Anzi, ha scoperto la miglior versione di sé stesso, come testimoniano – tra le altre cose – i 30 gol realizzati in maglia nerazzurra. Lookman non perde occasione per sottolineare i meriti dello staff tecnico, come del resto i suoi compagni di reparto di ieri sera, Scamacca e De Ketelaere; oppure Hien, che quattro anni fa giocava (da attaccante!) in terza divisione svedese e ieri è stato tra i migliori in campo; o ancora Koopmeiners, che a Bergamo si è affermato rapidamente tra i migliori centrocampisti in Europa, e quest’estate potrebbe trasferirsi in un top club. Insomma, una lunga lista di giocatori passati, cresciuti ed esplosi da queste parti, made in Zingonia, ha dato a Gasperini quel che è di Gasperini. Ieri la sua Atalanta ha scritto una delle pagine più belle che si ricordino del calcio italiano. Per il percorso e per i valori che l’hanno accompagnato, forse la più bella in assoluto. Perché, come dice Gasperini, «il calcio è bello per meritocrazia, non per diritti acquisiti geneticamente».