Abbiamo assistito all’esplosione di Phil Foden, ed è stato uno spettacolo

Sull'ennesimo titolo del Manchester City c'è la firma del tuttocampista inglese, mai così decisivo, dominante, bello da vedere.

Il 3 marzo, a poche ore dal dodicesimo derby di Manchester della carriera di Phil Foden, The Independent pubblica un articolo in cui viene spiegato come il ragazzo di Stockport sia diventato un giocatore «dal valore inestimabile» nel City di Pep Guardiola. E proprio nella stagione in cui il tecnico catalano ha dovuto fare i conti con l’infortunio di De Bruyne e alcuni imprevisti blackout realizzativi di Haaland: «Uno dei test che ogni grande talento deve affrontare riguarda l’impatto che riesce a esercitare quando è in campo. Foden è un diventato un giocatore molto più veloce ed esplosivo di quanto non fosse quando era soprannominato The Stockport Iniesta ed è molto più presente all’interno dell’area di rigore. E in più si sta assumendo molte più responsabilità». 

Quel pomeriggio Foden ci mette meno di un’ora di gioco per confermare queste parole, per dimostrare quanto sia necessaria la sua presenza all’interno del sistema di gioco più sofisticato del mondo: prima la rete del pareggio con il tiro da fuori area all’incrocio dei pali tagliando palla al piede da destra verso il centro, poi il gol del 2-1 andando a chiudere con un furioso inserimento senza palla un’azione che lui stesso aveva avviato con un tocco in verticale in grado di tagliare due delle tre linee difensive dello United. Nelle interviste del dopo gara Guardiola dice che «Phil Foden è il miglior giocatore della Premier League di questa stagione. Ha un’etica del lavoro incredibile, non importa la posizione in cui si trova: può giocare a destra, al centro, a sinistra, tagliare dentro e segnare da qualsiasi posizione. Non si lamenta mai e adesso è anche uno che vince le partite». 

Due mesi e mezzo dopo quella partita che lo ha imposto come leader della prima squadra della storia a vincere la Premier League per quattro volte di fila, Foden è stato effettivamente nominato Player of The Season. Tra le motivazioni dei vari panelist che lo hanno preferito agli altri candidati (Haaland, Isak, Odegaard, Rice, Palmer, Van Dijk e Watkins), colpiscono particolarmente quelle di Mark Schwarzer, portiere australiano che per quasi vent’anni (dal 1997 al 2016) ha vissuto da protagonista le fasi che hanno portato il campionato inglese a essere considerato il meglio che c’è: «Phil Foden si è evoluto in uno dei giocatori più eccitanti del pianeta. Quando ha il pallone tra i piedi pensi sempre che possa rendere possibile l’impossibile. E poi chi è che non vorrebbe veder sempre giocare uno così?». 

Il giorno successivo all’annuncio, nell’ultima partita di campionato contro il West Ham, Foden ha voluto legittimare questo suo nuovo status di must watch a ogni costo. E ha impiegato poco meno di venti minuti per chiudere in prima persona una corsa al titolo in cui se il City è stata, ancora una volta, la squadra che non poteva perdere (21 partite senza sconfitte dal 6 dicembre) lo deve a lui e a quella spaventosa continuità di rendimento che gli ha permesso di mettere insieme i gol che non è riuscito a segnare Haaland e gli assist che non ha potuto fare De Bruyne. Dopo nemmeno due minuti dal fischio d’inizio è arrivata l’ennesima rete da fuori area – la sesta in Premier, la decima in stagione – con la solita conclusione all’incrocio dei pali preparata dal solito sontuoso controllo orientato che accomoda il pallone su quella che è ormai considerata la sua mattonella, replicando il capolavoro cui aveva tolto il velo già in Champions League al Bernabéu contro il Real; poi, al 18esimo, il gol del 2-0 da centravanti d’area, un colpo d’interno sinistro di prima intenzione facilitato dal cutback pass tagliato e tagliente di Jeremy Doku. 

Foden ha deciso la partita decisiva della stagione in cui è stato più decisivo

Già da qualche tempo il focus del dibattito che riguarda Foden si è spostato dal mero dato statistico (27 gol e 11 assist in tutte le competizioni, 19 e 8 solo in campionato) al modo in cui Guardiola è riuscito a costruire la sua nuova arma offensiva totale partendo da una situazione di potenziale incollocabilità, in cui quasi non si sapeva cosa fare di un giocatore che era contemporaneamente free 8 e falso nueve, mezzala e trequartista, creatore e rifinitore. Anche per questo, si può dire che Pep abbia fatto l’ennesimo capolavoro: nel Manchester City di oggi, Foden è probabilmente l’unico universale con compiti da specialista, un nuovo specimen tecnico generato dalla necessità di mettere al centro – del campo e del gioco – un calciatore in grado di portare a un altro livello il concetto di creazione della superiorità numerica e posizionale con e senza palla. 

Ce ne siamo accorti tutti la sera del 28 novembre scorso, durante il secondo tempo della partita tra City e Red Bull Lipsia, anzi nel secondo tempo della partita contro il Lipsia, iniziato con i Citizens in svantaggio 2-0 (doppietta di Openda) e con Guardiola costretto a disegnare uno spregiudicatissimo 3-1-4-2, con Julián Álvarez e Doku entrati al posto di Grealish e Kyle Walker e con la rinuncia al doble pivote visto che Akanji scala a braccetto di destra e a Rodri viene affidato il compito di schermare quasi da solo la fascia centrale del campo in fase di non possesso. In quello che è, a tutti gli effetti, un tentativo estremo di occupazione totale della metà campo avversaria, Foden diventa il giocatore chiave dell’intera fase offensiva per via della sua capacità di generare occasioni dal nulla, di vedere corridoi e linee di passaggio anche quando gli spazi si restringono a causa della densità che si viene a creare in zona palla: una di queste viene attaccata da Haaland, servito sulla corsa con un tocco d’esterno che taglia fuori i due centrali e permette al norvegese di prendere i due metri di vantaggio che gli servono per controllare a battere a rete di piatto sinistro all’interno dell’area di rigore. Quindici minuti dopo Foden sfrutta la qualità e la pulizia tecnica dei suoi fondamentali per realizzare uno di quei gol in cui sembra che tutto si svolga a due velocità, la sua e quella di tutti gli altri intorno a lui. L’azione si sviluppa sulla sinistra, con il movimento senza palla di Doku che permette a Gvardiol di portare palla fin quasi al limite dell’area di rigore: il passaggio orizzontale che coglie in controtempo Simakan è probabilmente troppo forte perché il pallone possa essere rigiocato subito, ma Foden riesce in qualche modo ad ammortizzarlo con l’interno del piede destro e a portarselo avanti con il sinistro, raggruppando due movimenti in uno e trovandosi in una frazione di secondo di fronte alla porta. A quel punto Blaswich è battuto ancor prima che il numero 47 segni con l’equivalente di un putter che passa sotto le gambe di Klostermann e si infila, lieve e imprendibile, nell’angolo alla sua sinistra. Quando, poi, mancano meno di cinque minuti al fischio finale Foden si esibisce nell’ennesimo saggio sull’importanza del primo controllo orientato in situazioni difficili: il passaggio di Doku viene sporcato dal tocco di Simakan eppure, proprio quando sembra che il pallone lo abbia ormai superato, Foden torna per un attimo l’Iniesta di Stockport e lo uncina con il suo sinistro prensile, in un modo tale da far sembrare l’assist per il gol del 3-2 di Álvarez il dettaglio meno importante dell’intera azione. Rimonta completata, Manchester City vittorioso e qualificato aritmeticamente come primo nel girone con una giornata d’anticipo. 

Tutto così apparentemente semplice, tutto così Foden, che da quella sera diventa il padrone della squadra: 20 gol e 6 assist nelle successive 32 partite, come se qualcuno avesse sbloccato il cheat code dell’ingiocabilità individuale e collettiva che ha portato il City a vincere il campionato (e forse la FA Cup) anche in una stagione in cui Liverpool e Arsenal sembravano averne di più dal punto vista della leggerezza tecnica e mentale.

Come dire: Foden sa cambiare le partite

Per arrivare a quello che costituisce il primo vero apice prestazionale della sua carriera, Foden ha dovuto fare i conti con l’intransigenza di Guardiola per ciò che riguarda il percorso che parte dal «è uno dei migliori che abbia mai allenato» per poi arrivare al «sarà un giocatore leggendario per il numero di partite che giocherà, per i gol che segnerà, per i trofei che vincerà», senza che per una volta le consuete iperboli verbali del tecnico sembrino ridondanti o esagerate. 

Nel corso degli anni ci sono sempre state delle conferenze stampa in cui Guardiola non mancava di sottolineare che Foden «può giocare in cinque posizioni: attaccante, ala sinistra, ala destra, trequartista, mezzala»: la prima volta fu nell’aprile 2021 nella parte finale di una stagione da oltre 2500 minuti disputati (per lo più da supersub a gara in corso) che lo avrebbe consacrato Young Player of The Year; la seconda avvenne un anno dopo, a maggio 2022, il giorno dopo aver fornito due assist in un 4-0 contro il Leeds di Jesse Marsch, agendo da mezzala di possesso con il compito di far progredire l’azione in verticale; l’ultima lo scorso agosto, a pochi mesi di distanza dal leggendario Treble chiuso dalla vittoria della Champions League a Istanbul contro l’Inter, un’impresa cui Foden, nella percezione comune, aveva contribuito in maniera piuttosto marginale. Anzi l’occasione fallita al 75esimo della finale – un sinistro fiacco comodamente bloccato a terra da Onana dopo aver spezzato due linee di pressione con il solito sontuoso controllo a seguire spalle alla porta – assomigliava tanto al proverbiale guscio di noce al cui interno era contenuta la proiezione di ciò che pensavamo fosse Foden, cioè un giocatore esteticamente appagante ma superfluo, non necessario, persino fumoso nelle manifestazioni intermittenti del suo talento. 

Nella già citata dichiarazione di agosto scorso, però, Guardiola anticipa quella che sarà un’inversione di tendenza imposta dal cambio di posizione, compiti e funzioni: «È vero che può giocare in tutte quelle posizioni ma credo che in mezzo al campo possa fare qualcosa di veramente speciale, anche se ha bisogno di tempo per reagire dal punto di vista difensivo. Giocare di più in quella zona di campo potrebbe aiutarlo anche da questo punto vista». Usa il condizionale, Pep, ma in realtà ha già deciso. E l’infortunio di De Bruyne, così come gli addii di Gündoğan e Mahrez, non fanno altro che accelerare un processo che è già in atto. Foden diventa il giocatore uno e trino dell’attacco del City, colui da cui tutto passa e attraverso cui tutto scorre, quello a cui non si può rinunciare mai – 52 presenze complessive, 47 da titolare, 87% dei minuti totali giocati – perché ha il compito di far progredire l’azione in verticale nell’ultimo terzo di campo, di limitare gli effetti negativi di una costruzione dal basso che non viene effettuata nei modi e nei tempi giusti rigiocando velocemente anche i palloni più sporchi, di creare connessioni e linee di passaggio partendo dall’esterno per poi trovarsi da solo la migliore zona d’influenza per esercitare una superiorità tecnica e psicologica che va oltre la singola giocata. 

Il 25 aprile, nella gara in trasferta contro il Brighton di Roberto De Zerbi, Foden viene schierato come esterno sinistro in un 4-1-4-1 che fa assomigliare il City a una sorta di calice in cui Álvarez è l’oliva nel martini «agitato ma non mescolato» alla maniera di James Bond. L’ingrediente nemmeno tanto segreto del cocktail è, però, Foden che è ovunque e in nessun luogo, imprendibile e sfuggente per chiunque tenti di stargli dietro: tra il 17esimo e il 34esimo avvia l’azione del primo gol di De Bruyne e segna seconda e terza rete quasi senza doversi sforzare, come se fosse la palla ad andare verso di lui in quanto estensione diretta del suo piede. A fine gara Guardiola dice che «è questione di tempo ma può migliorare ancora molto dopo essere già migliorato rispetto alla scorsa stagione e rispetto a quelle ancora precedenti», soprattutto per la velocità di azione e reazione: «Anche a me piacerebbe vederlo andare sempre al massimo ogni vota che ha il pallone tra i piedi, ma poi rischierebbe di essere meno preciso e meno efficace: talvolta è necessario rallentare e capire quali sono i momenti in cui essere più aggressivo e quali, invece, essere più calmo».

L’impressione che abbiamo ricavato dalla seconda parte di stagione, però, è che Foden sia già arrivato a questo punto, come se l’aver giocato in tutti e cinque i ruoli del sistema gli avesse spalancato del porte della conoscenza di tutto ciò che accade sul terreno di gioco: vederlo giocare oggi significa proprio questo, significa vedere un calciatore che è in grado di piegare alla propria volontà la dimensione spazio-temporale in cui si svolge una singola partita. Perché nulla gli sfugge, nulla può sorprenderlo, nulla può essergli precluso. Men che meno vincere una Premier League da miglior giocatore della miglior squadra del mondo. La sua squadra, finalmente.