Domani nella battaglia pensa a me è il libro forse più noto di Javier Marias, campione della letteratura spagnola e grande tifoso del Real Madrid, custode della classe, da Alfredo Di Stéfano a Jude Bellingham. Il titolo è ricavato da un verso del Riccardo III di William Shakespeare, ma potrebbe essere benissimo una frase sussurrata da un allenatore al suo uomo di fiducia in campo, quello che – come disse una volta Antonio Conte riferendosi alla versione migliore di Arturo Vidal – «porto sempre con me quando devo andare a combattere». Questi giocatori rappresentano sempre più la Grande Differenza del calcio di oggi. E sono Selvaggi e sentimentali, parafrasando un altro titolo felice di Marias in questo caso dedicato alle sue memorie calcistiche da tifoso: capaci cioè di scompaginare i tatticismi con la loro forza motrice, di rendere tutto più fluido con il loro moto perpetuo. E spesso capaci anche di vincerla, questa battaglia. A tutto campo. Perché se non li trovi ovunque, vuol dire che c’è un problema.
Il loro mestiere è essere nel vivo del gioco, marcare il territorio, difenderlo dalle intemperie per gettare i semi buoni e possibilmente anche raccoglierne i frutti. Non sono attaccanti, non sono difensori, non sono registi. Sono, modestamente, l’anima della festa: quelli che corrono di più, che hanno un senso tattico superiore e che possono rompere l’equilibrio, rubando palla senza mai tirare indietro la gamba, spezzando le linee e buttandosi in area per l’imbucata a sorpresa. I centrocampisti box to box, per brevità anglosassone ribattezzati B2B, sono una specie a volte sottovalutata, spesso decisiva, di sicuro molto ricercata, per il loro impatto sul gioco e anche sul tabellino dei marcatori. Gente che sa sporcarsi le mani nel fango e poi, dopo un attimo, tenere saldamente tra le dita una penna, per scrivere un pezzetto della storia minima di una partita. E a volte non solo di quella.
Jorge Valdano di recente su El País ha definito un extraterrestre come Jude Bellingham un “vagacampista”, un vagabondo del centrocampo, ma la stella inglese – magia dopo magia – è forse più un numero 10 che un numero 8, per usare la vecchia numerazione ancora utile a volte per battezzare un ruolo: il ragazzo di Birmingham con la sua classe può permettersi di fluttuare tra le linee offensive, anche se con la sua fisicità può anche contrastare la ripartenza avversaria. Los todocampistas viaggiano più volentieri a fari spenti, ma sono capaci di sgommate improvvise. Che lasciano sempre il segno, sull’erba e anche nell’immaginario. Sono i Gerrard, i Lampard, i Cambiasso, i Khedira, gli Schweinsteiger, i Vidal di ieri, modelli per la nuova generazione, quella di Barella, di Frattesi, di Goretzka, di Rabiot e a loro modo, anche di Milinkovic-Savic e Fede Valverde: gambe, polmoni, cervello e tanto cuore. Per servirvi, ma spesso e volentieri anche per regnare da soli.
Secondo l’Oxford Dictionary of English, il termine “box to box midfielder” nasce nel 1983 e compare per la prima volta sulle pagine sportive dell’edizione londinese del Daily Mail. Niente di più facile che il primo a essere battezzato in questo modo possa essere stato Bryan Robson, il fantastico Captain Marvel del Manchester United e della Nazionale inglese. «Il più grande prodotto del nostro calcio», secondo Bobby Robson, che però non ha mai potuto vedere all’opera Bellingham, capace al Mondiale del 1982 di segnare dopo ventisette secondi alla Francia e di indurre, per l’emozione, il travaglio della moglie che lo stava seguendo in televisione e diede alla luce poche ore dopo la secondogenita Charlotte. Del resto, quando ci sono di mezzo combattenti del genere, che gettano lo scudo e si lanciano in area come se non ci fosse un domani, succede sempre qualcosa.
«Perché la prima caratteristica di questo tipo di giocatori è sempre la generosità», spiega Simone Perrotta, campione del mondo a Germania 2006, oggi Responsabile del Dipartimento Junior dell’Assocalciatori e vicepresidente del Settore Giovanile e Scolastico della FIGC, oltre che allenatore nella propria scuola calcio. La sua visione, anche oggi, è a 360 gradi, come quella di chi ha cominciato la carriera da mediano basso del 4-4-2 e poi, dopo l’apprendistato nel Chievo di Delneri, si è ritrovato trequartista operaio a duettare con Francesco Totti nella Roma di Spalletti: «Per essere un box to box non ti devi mai risparmiare, io prendevo gusto anche a fare una corsa a vuoto per liberare il compagno ed è chiaro che di base ci vuole anche un notevole atletismo. Poi ci sono altri ingredienti, tutti importanti, come la tipologia degli attaccanti con cui giochi e anche le richieste dell’allenatore. La situazione ideale è sempre quella di avere campo davanti a sé, per prendere velocità in corsa e puntare il difensore che così fa fatica a prenderti, anche perché è attratto dall’attaccante. Poi non c’è dubbio che ci vogliano uno spiccato senso del gol e una grande capacità di adattarsi, grazie anche al senso tattico, che con il tempo si allena e si affina». Un menù completo e d’alta cucina.
Ma c’è un’altra caratteristica che però non può assolutamente mancare e innerva tutto il resto, come i fili che muovono una marionetta. «Il tempo di inserimento, il timing, è difficilissimo da insegnare, anzi forse è impossibile: non ho trovato allenatori in carriera che hanno allenato questo aspetto e quando ci ho provato con i ragazzi della mia scuola calcio non ci sono riuscito, anche perché sono attratti dal D pallone. Così, giocando qualche partitella con gli amici, anche oggi mi rendo conto che non l’ho perso: seguire l’azione e buttarsi dentro fra i due difensori è una questione di istinto, innata. È una lettura dell’azione complessa, ma che tu riesci a rendere naturale: sai che la palla arriva lì, non sempre arriva, ma tu devi immaginarla. E se è la volta buona, allora devi sapere in anticipo quello che devi fare: come controllarla e come calciarla».

Per chi ha il dono della pre-visione, tutto può sembrare facile, ma assecondare il battito del gioco, soprattutto quando sta per accelerare e farlo senza mai perdere l’orientamento è una faccenda complessa. Non a caso l’evoluzione stessa della specie B2B non è così lineare. Al punto che, con quel gusto un po’ teatrale e anche vagamento sadico che hanno i giornali d’opinione nel sancire il declino di certe tendenze, il quotidiano londinese Guardian nel 2009 si chiedeva – a firma di Jonathan Wilson, un maestro riconosciuto nel narrare la storia della tattica – se «il centrocampista box to box è morto?». Il punto di partenza della sua analisi era chiaramente nazionalistico, nel senso che Gerrard e Lampard avevano dimostrato nell’Inghilterra di avere problemi a coesistere nel 4-4-2, perché lo spazio lasciato libero alle loro spalle quando avanzavano diventava il ventre molle della squadra. L’altro punto chiave era quello della specializzazione sempre più accentuata dei ruoli, sempre più esasperata dai tempi di Sacchi. Ma le difficoltà delineate da Wilson fra gli stenti della generazione d’oro del calcio made in England erano solo all’inizio, perché nel 2009 Guardiola vinse la sua prima Champions con il Barcellona di Xavi, Iniesta e Busquets, oltre che ovviamente di Leo Messi. Tempi duri per il B2B. Ma il ruolo ha anticorpi forti. Ed è sopravvissuto a un decennio abbondante di guardiolismo, dove evidentemente non si intende l’originale Pep in purezza ma i suoi epigoni.
«Infatti Luis Enrique la mezzala box to box non la voleva», osserva Perrotta, allenato dal catalano sempre alla Roma. «Lui la preferiva posizionale. Ma l’intelligenza di un giocatore di alto livello si vede anche dalla capacità di adattarsi alle richieste: Zeman puntava sulla sovrapposizione con l’esterno, che veniva dentro al campo, Lucho invece mai. Così da centrocampista abituato a input sempre diversi acquisisci il senso tattico: Cambiasso ad esempio era un maestro in questo, perché trovava sempre l’inserimento alle spalle dell’attaccante che tagliava e sapeva quando e come ricevere palla e buttarsi». Il numero dei gol del Cuchu interista – 51 in 431 presenze – è il marchio di fabbrica. Perché i B2B sanno sempre come cavarsela, anche in area.
Nella prima Juve di Conte, quella dello scudetto 2012, Matri e Vucinic segnarono 19 gol, Vidal e Marchisio 17. A loro poi si aggiunse Pogba, che di gol ne fece 34 in 190 presenze in tutte le competizioni. Ma era molto di più. Tanto che pochi mesi dopo la sua partenza al termine della stagione 2015/16, la Juve non trovava più la quadra: «Ci manca il nostro LeBron James, lì sulla sinistra», sibilò Giorgio Chiellini dopo una partitaccia a Firenze, per rendere l’idea della voragine lasciata dal francese. La settimana successiva Allegri varò contro la Lazio il 4-2-3-1 che trascinò Madama fino allo scudetto e alla seconda finale di Champions in tre edizioni, quella di Cardiff. Khedira, in mediana accanto a Pjanic, però non aveva il raggio d’azione per contrastare il Grande Real e l’illusione bianconera durò un tempo. Perché se non hai un guerriero che pensa a te nella battaglia, è dura vincerla. Ieri, oggi e domani.