Así gana el Madrid

C'è qualcosa di ineffabile, nel dominio senza tempo del Real Madrid: forse è perché non ha mai fatto concessioni ad alcuna identità, se non a quella di un club sempre alla ricerca della vittoria.

La sorpresa più grande per un tifoso madridista è scoprire che esistono persone che non sono del Real Madrid. Di questa delicata scoperta fa piuttosto fatica a capacitarsi, quand’anche arrivi a farlo, perché tiene ai suoi simili e desidera il meglio per loro. Però finirà per accettare l’eresia con un’alzata di spalle e, forse, con un vago cenno altruistico con cui esprimere la sua comprensione per la debolezza umana. Non perché si senta superiore agli altri: è perché ha avuto la fortuna di appartenere al miglior club del mondo, il che sottintende che le altre squadre sono tutte peggiori della sua.

Appurato che del palmarés non serve discutere, dato che la matematica non lascia margine d’opinione, resta la valutazione del grado di intensità del sentimento. Il Madrid è una passione? Chi mettesse a confronto certe notti gelide del Bernabéu con il sudore e la febbre degli spalti di altre tifoserie meno abituate alla vittoria, propenderà per dubitarne. Ci sono volte, molte volte, in cui il Madrid vince per un particolare tipo di inerzia, come l’incombenza surreale a cui è obbligato un personaggio kafkiano. Vince perché la sua maglia ha vinto per tutta la sua esistenza, e non smetterà certo adesso. Vince perché sa che deve, e basta. E ci sono tifosi che non ritengono che questo sia sufficiente. Ai frequentatori lamentosi della tribuna ricordiamo: anche il loro Madrid ha trascorso 30 anni senza vincere una Champions. E il fatto che oggi le conquisti con ritrovata facilità – in accordo con il lignaggio che ha forgiato la sua gloria – non dovrebbe cancellare la memoria della delusione, del capriccio della fortuna.

Spesso il giornalismo sportivo parla del Real Madrid come se la sua forza economica derivi dal bilancio generale dello Stato. Come fosse un reddito fisso o un gold standard, e non per quello che è: un capitale economico-sportivo variabile, che in fondo dipende dal desiderio oscuro di conquistare titoli da parte di alcuni signori di bianco vestiti. La verità è che la ricchezza della squadra di Chamartín era già leggendaria quando Madrid era ancora un sobborgo polveroso popolato da oscuri funzionari. Perché Berlino, la metropoli più potente dell’Unione Europea, non ha un club all’altezza della sua forza politica? Perché nemmeno i petrodollari hanno innalzato Parigi all’Olimpo del calcio, come invece figura in quello dell’architettura? Perché Benfica e Inter, che contesero al Real la tirannia sull’Europa, non hanno retto alla corsa agli armamenti e oggi conoscono appena momenti di limitato ed effimero dominio? E la domanda principale: perché dove tutti falliscono, in quanto è umano fallire e affondare nella miseria di tanto in tanto, l’egemonia del Madrid resta inossidabile? Perché, si sarebbe chiesto Heidegger, è sempre lì?

Ci sono società meglio organizzate. Automatismi fedeli a criteri scientifici di rendimento e modelli di assoluta meritocrazia gestionale. L’ultimo Borussia Dortmund, per esempio. Ci sono squadre disegnate per vincere, costruite per vincere… ma che alla fine non vincono. Nel chiedersi perché, molti ricorrono a risposte vaghe e confuse, legate a blasone e mistica. L’unica realtà è che il Madrid ha goduto di un raro abbinamento di genio calcistico e visione imprenditoriale con Di Stéfano in campo e Bernabéu in tribuna. Però questa è stata l’origine. Il difficile è conservare questa risorsa.

L’ultimo trionfo del Real Madrid in ordine di tempo è stato il Mondiale per Club conquistato poche settimane fa in Marocco: se contiamo i successi nazionali e internazionali in competizioni ufficiali, si è trattato del trofeo numero 98 nella storia del club (Michael Steele/Getty Images)

Io sospetto che il successo madridista sia dovuto alla sua totale modernità. Non ha mai fatto concessioni all’identità: che fosse etnica, sociologica, ideologica. Don Santiago, che nella vita era un conservatore, non osò esserlo nel lavoro e aprì il club all’astro straniero laddove eccellesse, alla proiezione internazionale senza legacci localisti – il madridismo non è mai stato un madrilenismo –, alla globalità oltre il nazionalismo, al successo cannibale senza ingerenze sentimentalistiche, alla trasversalità ideologica. Da qui dovrebbe iniziare a cercare chi è davvero interessato al mistero blanco.

Il Madrid vince noncurante del deterioramento del tempo. Se ne serve per reincarnazioni al limite dell’insensato: Florentino Pérez, per esempio, può fingere di essere Santiago Bernabéu, uscendosene con un’imitazione credibile. Essere e tempo: una squadra esistenzialista scagliata a questo mondo per vincere Champions allo scoccare degli orologi. Il Madrid, inoltre, vince contro l’estetica e contro l’etica. In tempi di idolatria stilistica, con il calcio che si gioca più per sviluppare spettacoli seducenti che per andare in porta, l’anarchia vichinga si impossessa di stendardi e va avanti con la sua dottrina di urla di guerra e gol inaspettati, frutto di genio individuale e disciplina tattica da cortile di collegio. Il Madrid non è nemmeno una confraternita di benefattori. Predispone l’educazione di non pochi bambini poveri nel mondo grazie alla sua Fondazione, ma il suo gioco non è una questione di pace e armonia universale. È invece una questione di segnare più gol dell’avversario. Non dico che essere il migliore sia facile. Dico che la grandezza del Madrid è un mistero dell’esistenza, e che merita di essere affrontata come tale. 

Dal numero 15 di Undici, tratto da Panenka