Nel maggio del 1992, i club di quella che fino ad allora era stata la First Division inglese decisero di creare una lega nuova di zecca, a partire dal nome. La FA Carling Premiership fu generosamente finanziata da BSkyB, una televisione satellitare di proprietà di Rupert Murdoch, che offrì 305 milioni di sterline per 5 anni di trasmissione, in esclusiva, degli incontri del nuovo campionato. Da allora la storia è nota: la Premier League (denominazione adottata a partire dalla stagione 2007/08) è diventata progressivamente la lega calcistica più ricca e più ammirata, quella che ha creato e mostrato un nuovo modello a livello tecnico, economico, commerciale. Un modello che però non manca di contraddizioni, soprattutto per quanto riguarda il futuro dei club inglesi, il rapporto che hanno tra loro ma anche con il resto del calcio europeo.
La Football Money League del gennaio 2021 ci dice che, tra le dieci squadre che hanno prodotto più introiti nella stagione sportiva 2019/20, figurano cinque club della Premier League: Manchester United, Liverpool, Manchester City, Chelsea e Tottenham. Il numero sale a dodici, in questa classifica, se si considerano i primi 30 club europei. Giusto per fare un po’ di confronti: la Germania piazza cinque società nella top 30, poi ci sono Italia e Spagna con quattro club a testa, seguite dalla Francia con due. Sempre facendo riferimento ai bilanci dell’annata 2019/20, scopriamo però che la media dei ricavi generati dai quattro club di Premier League qualificati per la Champions League (pari a 444 milioni di sterline), è di circa tre volte superiore di quella generata dai club di Premier fuori dalle competizioni europee (141 milioni di sterline), e di circa 22 volte superiore a quella dei club di seconda divisione (20 milioni di sterline). Se il primo dato è emblematico della capacità della Premier League di generare ricchezza, il secondo fotografa la profonda sperequazione che esiste tra l’élite della Premier e il resto del calcio professionistico inglese. Tre episodi accaduti nel 2021 sembrano indicare che, a trent’anni dalla sua fondazione, la Premier League sembra giunta a un tornante decisivo.
Nella primavera del 2021, dodici tra i più ricchi e prestigiosi club calcistici europei – tra cui sei di Premier – hanno lanciato l’idea di una Super Lega, progetto nato e mestamente accantonato nello spazio brevissimo di 48 ore. La nuova competizione avrebbe avuto un carattere semi-chiuso, nel senso che le società fondatrici della vi avrebbero preso parte sempre, a prescindere dal piazzamento nei campionati nazionali della stagione precedente – com’è consuetudine negli sport americani, in cui le leghe sono organizzate come cartelli cui sono ammesse sempre le stesse squadre. Il nuovo format avrebbe generato un’audience globale in grado, secondo alcune stime, di raddoppiare il valore dei diritti televisivi del calcio. Inoltre, proprio la formula semi-chiusa dell’ammissione avrebbe messo gli ospiti fissi della Super Lega al riparo dal rischio di mancata qualificazione alla competizione stessa, quindi preservando la loro stabilità finanziaria. Per dirla in altre parole: l’obiettivo dei fondatori della Super Lega era quello di stabilire una barriera all’entrata molto alta per club meno blasonati, magari allenati con metodi più innovativi, attenti ai vivai, o gestiti in maniera più oculata.
Non è questa la sede per entrare nel merito di una disputa nella quale, peraltro, è difficile distinguere con nettezza tra buoni e cattivi – basti ricordare che a volere fortemente la Super Lega era stata la vecchia aristocrazia calcistica europea, Manchester United, Juventus e Real Madrid in testa, insidiata dai nouveaux riches che non hanno mai visto nel profitto, ma nel conseguimento di soft power e rispettabilità, la ragion d’essere del loro investimento nel calcio. Non a caso, i primi club a sfilarsi dal progetto sono stati il Chelsea del russo Roman Abramovich e il City dello sceicco Mansour bin Zayed (Abu Dhabi), mentre il Paris Saint-Germain di Tamin Bin Hamad Al Thani non ha neppure aderito.
Proprio il tentativo di creare la Super Lega ha avuto un impatto significativo nel calcio inglese: l’istituzione accelerata, per non dire immediata, dell’Independent Fan Led Review of Football Governance, di cui si era già parlato in seguito al fallimento del Bury, nel 2019, e allo scoppio della pandemia. La commissione, presieduta dalla stimata deputata britannica Tracey Crouch, ha pubblicato nel novembre 2021 un documento che, se applicato alla lettera (un grosso se), trasformerebbe la Premier League. Poiché la costringerebbe a rinunciare, per la prima volta dalla sua fondazione, ad autodeterminazione e light-touch regulation, sulla base del principio che le società calcistiche hanno un valore sociale e culturale, e che il compito dei proprietari è quello di custodirle per il bene della comunità. La proposta chiave del documento è costituita dalla creazione di una nuova autorità indipendente chiamata a disciplinare la Premier League e il calcio inglese sia in termini di governance che di regolamentazione finanziaria. Una volta istituita, l’autorità indipendente avrebbe il potere di decidere in quali aree strategiche debba essere offerto ai tifosi l’esercizio di una golden share.
Il terzo episodio risale all’ottobre 2021. Dopo un lungo stallo, la Premier League ha concesso al fondo sovrano dell’Arabia Saudita Public Investment Fund (PIF) il via libera per acquisire l’80 per cento del Newcastle United. L’operazione, dal costo di 300 milioni di sterline, ha coinvolto per il restante 20 per cento la PCP Capital Partners, una boutique finanziaria che si era già occupata dell’acquisto del City da parte di Mansour nel 2008, e la società di private equity RBS Sport. Va ricordato che il motivo per cui l’operazione languiva da anni non è l’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi – ucciso nell’autunno del 2018 presso l’ambasciata saudita a Istanbul – e da molteplici fonti attribuito alla volontà del Principe ereditario al trono dell’Arabia Saudita Mohammad Bin Salman (MBS): il Fit and Proper test della Premier League, chiamato a verificare i requisiti economici e legali di un potenziale proprietario di club, non contiene infatti nessun vincolo morale o politico. L’elemento che aveva congelato la trattativa fino all’autunno del 2021 riguardava invece il sospetto coinvolgimento del Regno Saudita in operazioni di pirateria ai danni del gruppo qatariota beIN Media, che trasmette gli incontri di Premier League nei Paesi arabi. Una volta appurata l’autonomia legale del PIF dallo stato Saudita, il PIF è stato autorizzato a rilevare il Newcastle. Mentre attivisti e organizzazioni internazionali si indignavano per un’operazione che segna un inquietante salto di qualità nelle pratiche di sportswashing, i tifosi del Newcastle salutavano con entusiasmo l’arrivo dei benefattori sauditi, che promettono di trasformare il club in una potenza calcistica europea e di investire in una città ancora alle prese con una difficile transizione post-industriale.

I tre eventi passati in rassegna sono tre possibili strade che la Premier League potrà imboccare negli anni a venire. La vicenda della Super Lega sembra indicare una possibile via d’uscita “americana” per l’élite della Premier League (ed europea); quella del documento elaborato dalla Independent Review un ragionevole correttivo rispetto all’ultimo trentennio; l’acquisto del Newcastle da parte del PIF, infine, va nella direzione dell’assoluta continuità. La Super Lega era un’idea tanto ambiziosa, quanto affrettata, incompleta e maldestra. Proprio questa considerazione induce a credere che i proprietari dei grandi club europei potrebbero riproporre un’idea simile in futuro, magari con un progetto meglio congegnato e meglio presentato all’opinione pubblica. In tal caso, l’élite della Premier League andrebbe a fondare una lega ispirata ai principi del modello americano, dove la massimizzazione dei profitti all’interno del cartello è anteposta alla massimizzazione del successo sul campo dei singoli club.
Alcune delle proposte suggerite dalla Independent Review andrebbero invece a riformare la Premier League, disciplinandone aspetti di natura finanziaria e non solo, rendendola probabilmente meno appetibile agli occhi degli investitori esteri – alcuni dei quali non passerebbero un credibile e ben congegnato Fit and proper test – ma anche un po’ più equa e sostenibile. Mentre nel primo scenario le nuove regole circa la regolamentazione finanziaria, del mercato del lavoro e redistributiva sarebbero di esclusiva competenza dei club riuniti nella Super Lega, nel secondo la definizione di alcune fondamentali regole del gioco spetterebbe a un’autorità esterna. Mentre la prima opzione provocherebbe (come ha già fatto nella primavera del 2021) una levata di scudi da parte di società calcistiche medio/piccole, la seconda sta provocando il fuoco di sbarramento di club di ogni dimensione.
Quest’ultimo elemento spinge a considerare una terza opzione: che la Premier League non faccia niente, accettando che qualche crisi societaria, anche di alto profilo, sia un prezzo che vale la pena pagare se si può contare sull’arrivo di investitori in cerca di profitti, ma soprattutto visibilità, influenza e rispettabilità. La forza di quest’opzione consiste nella natura stessa del tifo calcistico, che tende a essere acritico e amorale (come mostra la vicenda del Newcastle), e nel fatto che quella della Premier League, e del calcio in generale, è una insostenibilità tutto sommato sostenibile. Un club calcistico potrà talvolta anche essere troppo grande per fallire (too big to fail), nel senso che rappresenta un patrimonio storico-sociale difficile da lasciar andare in malora; tuttavia, non sarà mai troppo grande da salvare (too big to save) perché resta una realtà d’impresa di piccole o medie dimensioni. In questo senso, dunque, una Premier non riformata sarà sempre in grado di trovare un MBS felice di far calare l’oblio sulle proprie nefandezze vestendo, in cambio di qualche “spicciolo” – perché questo rappresenta, per le casse del PIF, l’investimento nel Newcastle – i panni del benefattore.